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Giovedì, 24 Apr 2025

Contro Milano – Ascesa e caduta di un modello di città, di Gianni Barbacetto - Editrice Paper FIRST by Il Fatto Quotidiano, 2025 – pp. 367, euro 18,00.

Recensione di Adriana Spera

La cosiddetta “capitale morale d’Italia” è tale? E i suoi abitanti vivono in un’isola del diritto e dei diritti? A leggere il saggio Contro Milano – Ascesa e caduta di un modello di città verrebbe solo da dire: poveri milanesi e povera Milano. La città glam, cool, sexy (tutti aggettivi ad essa riservati dalla grande stampa) sembra stia per finire come, se non peggio, della "Milano da bere" degli anni ’80, alla luce degli episodi di cronaca quotidiani.

Gianni Barbacetto, una delle firme di punta de Il Fatto Quotidiano, con questa sua opera, edita da Paper FIRST, ci offre un caleidoscopio urbanistico a metà tra un memoir e una analisi sociologica della sua città. Una dimostrazione, semmai ce ne fosse bisogno, di come l’urbanistica permea e condiziona profondamente le dinamiche socio-economiche di un luogo.

Chi scrive questa recensione è tra coloro che, nel lontano 2008 (dopo svariate varianti di piano approvate a partire dal 1993), a Roma lavorarono e votarono per un nuovo Piano Regolatore, senza alcun entusiasmo ma con la convinzione che quel compromesso raggiunto fosse l’unico modo per far cessare nella Capitale il fenomeno dell’urbanistica contrattata, il cosiddetto pianificar facendo, che rendeva tutte le regole dell’allora vigente Prg opinabili e modificabili. Da un tal baillamme scaturivano convenzioni mai rispettate, oneri concessori variabili, aree pubbliche a verde o aree agricole che improvvisamente diventavano edificabili e molto altro.

Un iter durato quindici anni, che non aveva risparmiato alla città una crescita disordinata e dispendiosa e una rendita fondiaria crescente, con prezzi delle case arrivati alle stelle.

La grande stampa romana, all’epoca non a caso di proprietà di palazzinari, con enfasi riportava le dichiarazioni degli amministratori milanesi contrari alla redazione di un Piano Regolatore generale e favorevoli ad una urbanistica à la carte, quella che ha portato agli accadimenti odierni nella città meneghina pur in presenza di un Piano Regolatore approvato nel 1953 e aggiornato con una variante comunale nel 1980 e una regionale nel 1988 e, infine, nel 2012; oltre ad un Piano di governo del territorio (Pgt), approvato nel 2019, ma le cui regole e il relativo piano dei servizi sono stati più volte modificati.

Insomma, si auspicava anche per Roma il mancato varo di uno strumento di governo e tutela del territorio.

Con la successiva crisi economica vi fu il crollo della bolla immobiliare ovunque e, in particolare, a Roma e Milano, ma in quest’ultima con l’Expo del 2015 la speculazione immobiliare ripartì. A Roma, al contrario, dopo una serie di amministrazioni catastrofiche, ancora non si torna ai picchi di quegli anni ma, guarda caso, per tornarci già si pensa di emendare il Prg del 2008.

Come scrive Barbacetto «Ma la vera novità di Milano non sono i grattacieli. È la narrazione. Ciò che viene costruito a partire da Expo è uno storytelling glorioso, sostenuto dal lavoro costante dei grandi giornali e delle loro edizioni locali, da un sistema di blog e social media, dalla cooptazione nel “Modello Milano” dei gruppi attivi nella produzione culturale, dei professionisti e degli intellettuali. Alimentato dalla rinuncia a un'analisi critica della città da parte delle istituzioni culturali e scientifiche cittadine: le università, il Politecnico, gli ordini professionali degli architetti e degli ingegneri. La pubblica amministrazione ha progressivamente rinunciato a pianificare la città in nome di uno sviluppo guidato dai privati, dai fondi immobiliari, o da società pubbliche (come Ferrovie dello Stato) che si comportano da immobiliaristi privati. Viene via via uccisa l'urbanistica (cioè la progettazione regolata della città in nome del bene comune), sostituita dalla” rigenerazione urbana”, termine-trappola per far digerire la cementificazione di ogni spazio residuo in città, senza regole, con incentivi volumetrici e la possibilità di costruire pagando gli oneri di urbanizzazione più bassi d’Europa… La narrazione di Milano dentro cui siamo non è – attenzione – il modo di raccontare un modello di crescita. È il modello di crescita.»

Un modello in cui non contano più, sono di fatto cancellati, i diritti sociali. «Questo è il Modello Milano: grande ricchezza per pochi, impoverimento ed espulsione per molti. Le amministrazioni hanno abbandonato le periferie, ridotto i servizi pubblici e privatizzato ogni cosa – scrive Barbacetto, che aggiunge – Poteva diventare la città più verde d’Europa, grazie alla riqualificazione delle sette aree un tempo occupate dagli scali ferroviari e ai milioni di metri quadrati totali di aree ex industriali o inutilizzate…che cosa resta alla città e ai cittadini…? Più inquinamento, meno suolo e meno servizi … Le mani sulla città prendono molto e danno in cambio poco». Sì e no l’8 per cento e il record del consumo del suolo e di inquinamento.

Una città di e per i ricchi in cui si fa finta di non vedere le interminabili file alle mense dei poveri, gli sfratti quotidiani, la fuga verso l’hinterland delle famiglie del ceto medio (400.000 abitanti sono andati via), gli appartamenti all’asta di chi non può più pagare il mutuo. Per contro, si prevede che i fondi immobiliari tra il 2014 e il 2029 investano ben 28 miliardi di euro (Milano è in testa in Europa per investimenti immobiliari) per la realizzazione di 10 milioni di metri quadri di immobili a prezzi inaccessibili per i comuni mortali (i prezzi in 10 anni sono aumentati del 40 per cento per l’acquisto e del 43 per cento gli affitti, mentre i salari sono cresciuti solo del 5,4 per cento). E dire che molte delle aree di espansione sono pubbliche, come gli ex scali ferroviari.

Le parole d’ordine sono quelle dell’urbanistica contemporanea: “densificazione” e “rigenerazione urbana”. Tutto agito da una imprenditoria privata sempre più ingorda, nell’assenza di politiche abitative pubbliche. Anzi, con uno spreco di risorse pubbliche, come nel caso di Expo 2015 costato 2 miliardi di denaro pubblico, risorse che avrebbero consentito la realizzazione di almeno 17mila appartamenti di edilizia popolare, 2 miliardi è anche la cifra che probabilmente il Comune di Milano - con una interpretazione delle regole urbanistiche aderente alla normativa vigente - avrebbe potuto incassare per le concessioni edilizie date ai costruttori.

Leggendo questo libro sembra di scorrere, in edizione meneghina, la storia del sacco di Roma, narrata da Italo Insolera nel suo Roma moderna - Ed.Einaudi, 1962- aggiornata ed estesa nel 2024 da Paolo Berdini (Roma moderna. Due secoli di storia urbanistica).

Come a Roma c’è sempre qualcuno da salvare per giustificare importanti cambi di destinazione d’uso delle aree (ora la compagnia aerea nazionale, ora la più importante compagnia telefonica italiana, ora il patron della squadra di calcio locale), così a Milano tutto parte dalla necessità di risanare i bilanci della Fiera (anche a Roma, per salvare l’ente Fiera si costruisce la nuova lungo l’autostrada per Fiumicino e si destina ad altri progetti l’area storica sulla Colombo) e da lì nascono Expo e City Life, come ha scritto il professore di urbanistica del Politecnico Sergio Brenna «la palla di neve che provocherà una valanga».

Processi certamente agevolati da strumenti quali: l’Accordo di programma (Adp), il Programma integrato di intervento (Pii) e altri nati negli anni ’90, prima con la legge 142/90 e poi ampliati con la legge 127/97, in nome della semplificazione, ma certamente a detrimento della democrazia e della partecipazione. Strumenti che via via hanno conferito poteri eccezionali ai Sindaci, togliendoli ai Consigli Comunali. A Milano si arriva così al paradosso per cui il Consiglio non vota un provvedimento urbanistico dal lontano 2014.

E sì perché questo andazzo si protrae da ben quattro sindacature, con una continuità che accomuna destra e “sinistra”.

Così si raggiungono indici di edificabilità record, di solito quello che consente di realizzare tutti gli standard pubblici minimi obbligatori va da 0,35 a 0,65 (qui si arriva a 1,15-1,20); si toglie l'obbligo di lasciare spazi pubblici che invece vengono monetizzati a prezzi di saldo (300 € mq invece di 2.000 € in base al valore immobiliare).

Ma a giocare un ruolo in queste vicende non ci sono solo banche e fondi immobiliari. Ci lascia basiti la vicenda del bosco di San Leonardo, un’area di 64mila mq - di proprietà della Fondazione Casa del Giovane La Madonnina, una struttura che offre rifugio ai minori abbandonati e assistenza ad altri soggetti fragili, controllata dalla Curia milanese - sulla quale dovrebbero sorgere torri alte 14 piani e altri edifici al posto della gran parte del bosco. Chissà cosa ne pensa il Papa.

Ma gli interventi che più impatteranno sulla sostenibilità urbana sono quelli conseguenti alla privatizzazione dei sette scali ferroviari (1.250.000 mq) «un “bene-comune”: perché sono aree del demanio ferroviario e statale che furono espropriate e acquisite dallo Stato – quindi con risorse della collettività – per motivi di pubblica utilità». Una partita da 2,5 miliardi, di cui a beneficio dei milanesi solo 50milioni.

Una vera e propria beffa per i cittadini che da una parte si vedono obbligati a cambiare auto per non inquinare e, al contempo, nonostante si siano espressi con un referendum per mantenere gli scali ferroviari aree pubbliche da destinare a verde e servizi, vedranno sorgere su quelle aree palazzi su palazzi.

Una scelta quella dei cittadini che, se rispettata dall’amministrazione comunale, avrebbe reso Milano la città più verde e meno inquinata d’Europa.

Negli anni, i progetti si moltiplicano, le procedure si semplificano sempre più, gli utili aumentano e con essi compaiono le infiltrazioni mafiose. I protagonisti sono sempre gli stessi che, a un certo punto, si fanno pure la guerra tra loro. La città che si va delineando è una città per pochi e ricchi, qui e là negli interventi c’è una spolverata di finto sociale, come il social housing, gli affitti convenzionati e onnipresenti studentati (anche questi per chi si può permettere di pagare mensilmente 650-1000 euro per un posto letto), «piccoli correttivi gattopardeschi che addolciscono il sistema, senza cambiarne la sostanza».

«Catalizzatori civici – li definisce uno dei massimi sviluppatori del sistema Milano – investimenti pubblici che servono (anche) a rendere preziosi i progetti privati attorno». E quando si associano a questo tourbillon speculativo pure le cooperative, nasce un inedito modello di “mutualismo finanziario”.

Ci si serve di qualsiasi espediente per giustificare queste operazioni speculative, fino a usare, per mettere a tacere le proteste per il taglio di un glicine secolare, la foglia di fico di un Museo della Resistenza, seppure esso occupi una minima parte dell’intervento. Parliamo delle tre piramidi della Fondazione Feltrinelli, a Porta Volta.

Il Fatto Quotidiano ha così commentato la vicenda: «quando il saggio indica il cemento, lo stolto guarda il glicine».

Ma forse gli interventi più devastanti sono quelli che avvengono nelle aree ancora inurbanizzate come, ad esempio, UpTown a Cascina Merlata, ma potremmo citare anche Santa Giulia, «che cancellano ogni traccia storica, ambientale, etnoantropologica preesistente» per realizzare «quartieri dove - come ha detto l'urbanista Elena Granata - sono rari gli spazi per le relazioni». E poi ci si meraviglia quando in essi esplode la violenza. «Il Modello Milano - scrive Barbacetto - è un acceleratore di disuguaglianze, di privatizzazioni, di abbandono delle periferie, in ultima analisi è un produttore di micro criminalità». A Roma al Prg, perlomeno, si era affiancata, ma è rimasta inapplicata, la Carta della Qualità sociale a tutela delle fasce più deboli.

Sicuramente, l'intervento che costerà di più alla città meneghina è quello dell'area di San Siro, una operazione da 1,294 miliardi di cui al comune andranno solo 21 milioni; i due club Milan e Inter pagheranno appena 195,8 milioni per avere in concessione lo stadio per novant'anni, circa due milioni l'anno, mentre oggi ne pagano 10. Un'operazione che si configura come un asset vitale per ridare ossigeno ai bilanci delle due squadre.

A fronte di tanta generosità con gli operatori immobiliari, gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria sono i più bassi d’Europa, meno del 5% del valore degli immobili costruiti, mentre altrove si va dal 15 al 30%, e così per i servizi cittadini non ci sono più soldi.

Dopo anni di urbanistica demandata agli uffici comunali e a una Commissione per il paesaggio, dove regnano conflitti d’interesse, con la estromissione del Consiglio Comunale da ogni processo decisionale in materia, come pure apparentemente della Giunta; dopo una determina del 2018 che aggiorna il regolamento edilizio e permette di usare la semplice Scia (segnalazione certificata di inizio attività) anche per le nuove edificazioni e una circolare del 2023 che esclude la necessità di piani attuativi per realizzare edifici alti oltre 25 metri; dopo che su 882 costruzioni residenziali ben 510 sono state realizzate con una semplice autocertificazione; ora il sindaco, chiede al Parlamento una interpretazione autentica (sic!) della legislazione nazionale che, a suo dire, non sarebbe chiara.

E dire che in Italia c'è un corpus di leggi urbanistiche che vanno dalla 1150 del 1942 alla legge ponte 765 del 1967, per finire con il decreto ministeriale 1444/68 che fissa gli standard per i servizi pubblici. Un sistema di regole dettate da un urbanistica liberale che aveva un'idea di città guidata dall'interesse pubblico, sempre asseverato da Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e Corte Costituzionale.

Certo, negli ultimi 30 anni, come dice l'urbanista Paolo Berdini «il governo della città è stato sottratto alla mano pubblica e consegnato ai privati» e così la “Milano da bere” è diventata la “Milano da mangiare” e se venisse approvata la “Salva-Milano”, sotto forma di interpretazione autentica della legge urbanistica, tutta l’Italia verrà “divorata” dalla speculazione edilizia.

Adriana Spera
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