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Martedì, 17 Giu 2025

Franco Basaglia - Passato e presente di una rivoluzione, di Ludovica Jona e Elisa Storace – Prefazione di Franco Basaglia - Postfazione di Massimo Cirri – Sperling & Kupfer ed. – 2025 – pp. 215, euro 18,90.

Recensione di Adriana Spera

La seconda metà degli anni ’70 in Italia sarà sicuramente ricordata dagli storici per quelle riforme legislative, che potremmo definire rivoluzionarie, che resero, sulla carta, la penisola un paese moderno. Ci riferiamo alle leggi su divorzio, aborto e, non da ultimo, alla cosiddetta legge Basaglia. Tuttavia, fatta eccezione per il divorzio, non si potrà non parlare di rivoluzioni parziali, se non fallite, nel caso della legge sull’aborto come di quella sulle malattie mentali.

Al fallimento di queste ultime due leggi ha contribuito non poco la successiva frammentazione del sistema sanitario pubblico in venti sistemi regionali, assai diversi fra loro, incapaci tanto di garantire pari diritti ai cittadini quanto capaci di sprecare risorse pubbliche. Un sistema che, come si è potuto constatare durante la pandemia, arriva a mettere a rischio la vita dei cittadini e, ciononostante, è inscalfibile perché garantisce ai partiti la gestione di ingenti risorse.

Ludovica Jona, giornalista d’inchiesta e collaboratrice tra gli altri de ilfattoquotidiano.it e di Report, e Elisa Storace, giornalista radiofonica e televisiva, divulgatrice scientifica per il Cnr, con il libro che si va a recensire, hanno condotto un’inchiesta sullo stato di attuazione e le prospettive future della legge 180 del 13 maggio 1978 “Sugli accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” (che abrogò la famigerata legge Giolitti n. 36/1904) che sancì in Italia, primo e unico paese a farlo, la chiusura dei manicomi.

Con questa legge venne enunciato il principio del ricovero volontario e stabilito che i Trattamenti sanitari obbligatori devono essere eseguiti nel rispetto della dignità, dei diritti civili e politici e con il consenso della persona. La cura, la prevenzione e il trattamento delle infermità psichiche devono essere espletati nei centri di salute mentale e, solo in casi eccezionali, in ospedale.

Legge ispirata dalle teorie e dalle pratiche poste in essere dallo psichiatra Franco Basaglia (seppure per i basagliani il testo rappresentasse un compromesso) il quale, tuttavia, chiese sempre di non riferire alla sua persona quella esperienza perché, ricorda il nipote omonimo, egli diceva sempre che «l'unica maniera per distruggere un'esperienza che ha un significato generale è personalizzarla … se si identifica con me, questa lotta muore perché non è di tutti». La lotta di Franco Basaglia vide coinvolti centinaia di volontari, artisti e intellettuali, come Ornette Coleman, Dario Fo, Franco Battiato, Gino Paoli e Umberto Eco.

Ed è sempre il nipote Franco Basaglia - convinto che la testimonianza storica possa informare e trasformare il presente, che ha fondato a Venezia “Archivio Basaglia”, che raccoglie tutti gli scritti del nonno - a dire che questa inchiesta serve a testimoniare che «quelle battaglie e quelle esperienze che hanno ispirato in tutto il paese restino un modello attuale di cura e un esempio di lotta sociale che possa scardinare la restaurazione di logiche e pratiche manicomiali oggi sempre più diffuse».

E sì perché dall’indagine condotta dalle autrici del libro emerge il ritorno a pratiche coercitive destinate soprattutto ai più poveri; i ricchi, oggi come cinquant’anni fa, possono permettersi luoghi di cura più rispettosi del malato. La contenzione fisica o farmacologica è la norma nella maggioranza dei centri, delle cliniche, dei reparti ospedalieri, degli ospizi e persino dei Cpr, dove immigrati e richiedenti asilo vengono imbottiti di psicofarmaci.

Solo il 5% dei servizi di diagnosi e cura sono «no restraint», ossia escludono ogni mezzo di coercizione e sono, quasi sempre, luoghi di cura per benestanti.

Ad abolire ogni mezzo di contenzione meccanica nei luoghi di cura della salute mentale ci ha provato invano il solo ministro della Salute Roberto Speranza, stanziando all’uopo 60milioni ma, subito dopo le elezioni del 2023, si è fatta marcia indietro, tant’è che è stato presentato in Parlamento il disegno di legge n. 1179 "Disposizioni in materia di tutela della salute mentale", che disciplina, quindi sdoganandola, la contenzione meccanica, purché la necessità venga asseverata da personale medico sanitario. Eppure le linee guida per i servizi di salute mentale dell’Oms, stabiliscono che la contenzione “è un evento traumatico che può provocare danni sia fisici sia psicologici e, a volte, anche la morte”.

Rompere la desensibilizzazione è ormai difficile «l'intero sistema sembra schiacciato da un doppio ricatto - afferma il giovane Basaglia -: quello degli operatori che se parlano rischiano il posto di lavoro e quello delle famiglie, terrorizzate dalla possibilità che i servizi restituiscano loro i pazienti, se si lamentano del trattamento o lo denunciano pubblicamente». Una situazione cui si è giunti perché non c’è più una lotta collettiva e perché su questi servizi non c’è, da parte delle Regioni che li gestiscono, trasparenza e controllo sulle strutture; per verificarne il funzionamento mancano dati pubblici, spesso mai neppure rilevati, come nel caso del ricorso alla contenzione meccanica.

Dall’inchiesta di Jona e Storace emerge che nel solo Friuli la riforma è attuata con una rete capillare di servizi sul territorio e, incredibilmente, si spende molto meno che in altre regioni dove la fanno da padrone strutture convenzionate, tanto costose quanto inadeguate, che ormai offrono ben trentamila posti letto.

E così, ad esempio, il Lazio destina alla salute mentale il 3% della spesa sanitaria regionale, tanto quanto il Friuli Venezia Giulia, ma li spende prevalentemente per strutture convenzionate dove vengono spesso ancora utilizzati metodi coercitivi ed è all’ultimo posto per numero di personale del servizio pubblico di salute mentale: un operatore ogni 5.000 abitanti. Ne deriva un ricorso alla contenzione meccanica fino al 20% degli interventi, mentre in Friuli Venezia Giulia vi sono zero casi.

I progetti di co-housing sono una rarità nonostante siano meno dispendiosi e producano più effetti positivi nei pazienti perché li avviano all’autonomia; viceversa, v’è un moltiplicarsi di realtà private convenzionate che non rispettano neppure i parametri previsti dal Progetto obiettivo «Tutela della salute mentale»: strutture di non più di venti posti, ubicate in aree urbanizzate.

Ad oggi, in media, metà del bilancio statale per la salute mentale è destinato alle residenze private convenzionate, con punte del 70% come nel Lazio. Uno stanziamento quest’ultimo, con 90 strutture convenzionate gestite dai soliti nomi della sanità privata, in crescita costante: dai 69 milioni del 2019, si è giunti agli 86,5 del 2024, nonostante un servizio carente e l’erogazione di psicofarmaci obsoleti e dannosi. Una situazione denunciata da Daniela Pezzi, presidente della Consulta Regionale per la Salute Mentale, un organismo composto da varie realtà di settore. Una denuncia che ha portato all’autoscioglimento di questo organismo per protesta contro il muro opposto dalla Regione.

Oggi, i pazienti passano da una struttura all’altra, un «gioco dell’oca della cronicità» lo definisce lo psichiatra Piero Cipriano. I tempi medi di permanenza sono passati dai 756,4 giorni del 2015, ai 1.124 del 2022, secondo l’Istituto Superiore di Sanità una situazione dovuta a «un insufficiente impiego di trattamenti psico-sociali e a un insufficiente dotazione di operatori formati all’impiego degli interventi riabilitativi sostenuti da evidenze di efficacia» (Residenzialità psichiatrica: analisi e prospettive, a cura di M.L. Scattoni).

Resta - oggi come nel 1970, quando lo slogan del movimento studentesco che occupò il manicomio di Colorno era: «il figlio del ricco è esaurito, il figlio del povero è matto» - un sistema per la cura delle malattie mentali estremamente classista.

E dire che il programma Basagliano non era che un progetto per garantire i diritti umani e sociali ai malati di mente che all’epoca non solo erano costretti a vivere in regime coatto, in condizioni disumane, sottoposti a “cure” durissime come l’elettrochoc e la terapia insulinica, ma erano persino privati dei loro diritti civili e politici. L'idea di de-istituzionalizzazione dello psichiatra veneto era un percorso a tappe che partiva dalla rottura dei rapporti di forza tra personale medico e pazienti, coinvolgendo questi ultimi nella cura. Successivamente occorreva renderli autonomi avviandoli a un lavoro retribuito dentro e fuori l'ospedale, solo allora si potevano dismettere le strutture, riportando i pazienti in famiglia, oppure costituendo dei gruppi-appartamento e seguendo il loro ritorno in società.

«La scienza che deve nascere è una scienza per chi soffre, una scienza per gli oppressi. — dichiarò Franco Basaglia nel 1977 in un congresso a Trieste cui parteciparono oltre 4.000 psichiatri di tutto il mondo - E per fare una scienza per gli oppressi bisogna conoscere il sapere degli oppressi. Perché se noi non riusciamo a capire quali sono i bisogni dell'oppresso, noi non possiamo fabbricare una scienza che risponda ai bisogni di sofferenza. Non possiamo rispondere sempre con una risposta preformata, che è la risposta del potere».

Un libro “sovversivo” come L’istituzione negata, che coinvolgeva nella redazione i malati, attualmente è impensabile e forse oggi non sarebbe neppure possibile chiudere i manicomi come avvenne grazie a Basaglia per il quale «non si può fare assistenza psichiatrica se non si elimina la repressione della devianza psichica, la ghettizzazione, l'emarginazione sociale con la scusa della malattia. Però si può parlare di fine dell'ospedale psichiatrico soltanto quando c'è una situazione alternativa». Ossia, come precisava in una intervista alla Stampa «È sul territorio che prima di tutto bisogna intervenire. Con strutture non ghettizzanti, combattendo l’emarginazione a tutti i livelli, facendo opera di prevenzione, lottando contro le contraddizioni della società. Negli ospedali ci sarà sempre il pericolo dei reparti speciali, del perpetuarsi di una visione segregante ed emarginante». Una visione che non fa che moltiplicare le malattie psichiatriche.

Ma, come diceva lo stesso Basaglia «Dobbiamo imparare a perdere, e a riprendere di nuovo la lotta, perché solamente così riusciremo a convincere. Come abbiamo detto, sono sempre i dittatori che vincono. Il popolo, con le sue ragioni, deve convincere…È troppo facile per l'establishment psichiatrico definire il nostro lavoro come privo di serietà e di rispettabilità scientifica. Il giudizio non può che lusingarci, dato che esso ci accomuna finalmente alla mancanza di serietà e di rispettabilità, da sempre riconosciuta al malato mentale e a tutti gli esclusi».

Quella rete capillare di servizi di prossimità che ancora oggi manca quasi ovunque, rendendo la rivoluzione Basagliana una riforma incompiuta, anche per ragioni economiche. Un approccio alla persona, piuttosto che alla malattia, comporta servizi dedicati e, soprattutto, prevenzione, servizi che fanno circolare molti meno denari che non le strutture residenziali, dove le persone vengono ricoverate quando ormai la situazione è grave.

Adriana Spera
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