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Venerdì, 26 Apr 2024

La lettura dell’articolo di Enzo Boschi sul deposito nazionale per i rifiuti radioattivi, apparso sull’ultimo numero del Foglietto, mi ha spinto a scrivere questo breve intervento.

Alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, il tema della sistemazione dei rifiuti nucleari italiani sembrava aver subìto un’accelerazione decisiva. Presidente del Consiglio dei ministri era Romano Prodi, all’ambiente c’era Edo Ronchi, all’industria Luigi Bersani, di cui ricordo l’impegno e l’azione propulsiva. Probabilmente, era stimolato anche dal fatto che nella sua Regione d’origine c’era la centrale nucleare di Caorso, con gli elementi combustibili rimasti lì fermi, caricati da anni da chi sperava che, aspettando, le condizioni politiche potessero consentire di ripartire nella produzione elettrica. Alla direzione dell’Enea c’era Carlo Rubbia, premio Nobel. Alla direzione dell’Anpa, autorità di sicurezza nucleare e per la radioprotezione, c’era chi scrive, che ha seguìto tutta la vicenda, con un pool di elevatissime professionalità derivanti dall’ex Direzione Enea-Disp, anche se tutte piuttosto attempate e con scarso o nullo ricambio in vista, dopo il loro pensionamento.

Nasceva la Sogin, a completo capitale pubblico, con legge d’iniziativa parlamentare, con la finalità di operare la dismissione (decommissioning) delle centrali nucleari italiane riportando i siti dove erano insediati, privi da vincoli radiologici (greeen field) e per la sistemazione di rifiuti radioattivi.

La strategia intrapresa all’epoca fu di non spedire i nostri rifiuti nucleari all’estero, a meno che a livello europeo si fosse proceduto a realizzare un sito unico comunitario, ipotesi di cui si parlava ma che non ha mai avuto altro che parole. Quindi, si procedeva con la piena e doverosa assunzione della responsabilità della gestione di quei pericolosissimi materiali, in Italia, e per il deposito si era deciso di realizzarne uno “temporaneo”, provvisorio (interim storage).

In questa materia, si badi, la “temporaneità” è piuttosto relativa, perché parliamo di periodi comunque molto lunghi. Infatti, le scorie nucleari ad alta attività devono essere stoccate in sicurezza per decine di millenni e i nostri manufatti non è detto che possano durare così tanto tempo, qualora realizzassimo un deposito preteso come “definitivo”. Anche la sistemazione geologica, ad esempio in miniere di sale, presenta lo stesso problema: tempi così lunghi diventano geologici, piuttosto che storici, e non siamo sicuri che le cose non possano nel tempo guastarsi e provocare tragedie irrimediabili.

Si pensi che i tempi sono talmente lunghi che in Usa hanno posto persino il problema della lingua: come segnalare l’esistenza di un deposito nucleare pericolosissimo con una stele o con qualche segnaletica (fatte di quali materiali?), che potrebbe essere letta quando l’inglese potrebbe essere estinto e sostituito da altra diversa lingua nel frattempo evolutasi ed affermatasi?

Interim storage significa, in definitiva, fare un deposito entro cui i rifiuti nucleari siano collocati in sicurezza in speciali contenitori, che tra un secolo o più potrebbero essere tranquillamente rimossi, trasferiti (sempre in sicurezza) altrove e il deposito essere smantellato o completamente rifatto daccapo.

Si partì con un’inchiesta per saggiare la conoscenza e la percezione che hanno gli italiani del problema: inutile dire che il risultato è stato che nessuno ne sa quasi nulla, anzi sono convinti che con la chiusura delle centrali il problema non esista più. Nemmeno è noto quanto nucleare c’è in giro nell’industria (delle pellicole, della carta), nella meccanica (gamma-grafie per verificare l’integrità delle saldature metalliche) … in medicina, nei reparti di radiologia degli ospedali, ecc.  

Questa fase conoscitiva sarebbe poi servita per programmare e realizzare una campagna d’informazione al pubblico, mirata a rendere noti tutti gli aspetti del problema, e a seguire – atteso che la gente avesse assunto la consapevolezza che esiste un problema serio e che bisogna farsene carico - lo stabilire i criteri di scelta del sito del deposito nazionale, con un processo partecipato, il più possibile trasparente. Stabiliti i criteri, accettando ogni suggerimento … il problema diventava solo tecnico: scegliere il sito più adatto … o il meno inadatto, e spiegarne la ratio a testa alta di fronte a chiunque. Ogni obiezione - in questo campo, certa - avrebbe trovato argomenti di risposta … e a chi tocca, tocca.

Io suggerivo un passaggio in più: non realizzare un deposito percepito come “cimitero” di materiali radioattivi, inquietante e opprimente anche dal punto di vista psicologico. Ogni abitante in zona lo avrebbe additato come causa di ogni tumore, di qualsiasi morte accidentale o malattie o causa anche di una semplice allergia; per creare fiducia, era opportuno rendere il deposito – senza rinunciare in nulla sulla necessaria sicurezza da attentati e cose simili – un posto “vivo” e frequentato. Insomma, attivo e visibilmente non … radio-attivo. Per esempio, annettendovi un centro di ricerca sulle energie rinnovabili e, magari, ospitandovi un museo nazionale dell’energia, dalle tecniche di accensione del fuoco degli uomini primitivi, passando per la ruota idraulica in poi… E proponevo una sorta di campus residenziale, ove i protagonisti della scelta del sito e del tipo d’impianto e i principali suoi realizzatori, andassero a vivere, magari con le proprie famiglie, almeno per un decennio …

Il processo si è arrestato con la caduta di quel governo e, dopo vent’anni, siamo al punto di prima. Anzi più indietro. Persino le procedure autorizzatorie per il decommissioning hanno subito negli anni ritardi vergognosi (occorrevano 2 procedimenti: l’uno, di Valutazione dell’Impatto Ambientale (V.I.A.) e, l’altro, per la sicurezza sugli aspetti radiologici).

Ma perché nel 2017 siamo ancora a parlare di queste cose? Innanzitutto perché l’ignavia dei governi, la ricerca del consenso e l’evitare le rogne ha allontanato la politica dalle proprie responsabilità. Poi, perché ritengo che la Sogin - non messa in condizione di operare pienamente per l’assenza delle autorizzazioni definitive - è stata utilizzata per una costellazione di attività che nulla hanno a che fare con la sistemazione dei rifiuti per cui era stata istituita. Queste attività “deviate” hanno costituito il principale impegno della Società che, ricordo, è finanziata con denaro pubblico ma ha un regime operativo privatistico in materia di assunzioni, di consulenze, ecc.

Infine, c’è da rilevare che gli ultimi veri esperti in materia di impianti nucleari e di radioprotezione, in Italia, sono oramai nella quasi totalità in età geriatrica o sono defunti. Professionalità - su cui lo Stato ha investito, specializzandoli in Usa, in Germania oppure nell’assistenza nella sicurezza ai reattori dei Paesi dell’est – che non sono state affiancate da nuove leve per il trasferimento delle conoscenze. Tanto che le facoltà universitarie hanno chiuso da tempo con quei corsi di laurea e non c’è ricambio. Delitto, questo, che non riguarda solo l’ambito specifico della sicurezza nucleare: le procedure adottate in quel campo, la modellistica previsionale, le metodologie sperimentate, infatti, sono preziose, perché trasferibili in tutti i campi della protezione dell’ambiente. La stessa V.I.A. altro non è che una procedura complessa, nata mutuando quelle in uso in ambito nucleare, così come modelli di dispersione di contaminanti in varie matrici ambientali.

Ultima amarezza: se avessimo completato il programma di decommissioning e realizzato il deposito nazionale per rifiuti radioattivi, avremmo potuto lanciare l’Italia, le sue professionalità, le sue istituzioni tecnico-scientifiche e le ditte del settore, nell’immenso business della dismissione delle centrali atomiche esistenti a livello mondiale. Già negli anni ’90, i nostri Tecnici avevano individuato soluzioni nuove, “creative”, all’epoca d’avanguardia, che consentono di decontaminare i materiali recuperando, privi di radioattività, oltre il 94% (in peso) dell’intera centrale atomica! Ciò riduce il fabbisogno di stoccaggio nel deposito nazionale.

Quindi, un’altra occasione perduta: è arrivata l’era della dismissione delle centrali atomiche e noi, partiti per primi, ne siamo fuori e stiamo ancora a muovere i primi passi.

E che dire della assenza assoluta di trasparenza adottata dall’epoca?

Giovanni Damiani, già Direttore generale dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente (Anpa)

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