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Venerdì, 26 Apr 2024

Secondo uno studio, frutto del lavoro di ricerca del Cibio (Centro di biologia integrata) dell’Università di Trento, i cui risultati sono pubblicati sulla rivista Nature Communications, in futuro, grazie a un semplice esame del sangue, potrebbe essere possibile ricavare informazioni altamente specifiche presenti nel DNA sulla possibilità che insorga un tumore della prostata e delle sue caratteristiche molecolari.

La prospettiva che si apre è di poter eventualmente intervenire con trattamenti farmacologici preventivi che possano inibire lo sviluppo del tumore, a partire da un test del DNA completo da utilizzare come indicatore di rischio specifico e come strumento per la prognosi. Una medicina di precisione che, giocando d’anticipo possa inibire il problema ancora prima che insorga.

Lo studio parte da un approccio del tutto nuovo rispetto quello tradizionale finora utilizzato in biologia per studiare la predisposizione genetica all’insorgenza dei tumori. Ipotizza infatti un legame tra il DNA ereditato e i meccanismi molecolari specifici osservati in tumori allo stato iniziale.

«I tumori sono malattie complesse, estremamente eterogenee, che insorgono dall’interazione di componenti ambientali e genetiche» spiega Francesca Demichelis, responsabile del Laboratorio di Biologia computazionale del Cibio. «In particolare, nel tumore alla prostata la componente ereditaria sembra importante. Studi effettuati in gemelli monozigoti e dizigoti del Nord Europa hanno evidenziato che più del 50% dei casi di tumore alla prostata hanno una componente ereditaria».

La prima novità dello studio del Cibio sta nel “luogo” in cui si cercano le risposte, finora quasi del tutto ignorato dalla comunità scientifica: il cosiddetto “DNA spazzatura”. «Questa parte di DNA “non codificante”, per decenni considerato un sottoprodotto del metabolismo cellulare, rappresenta la fetta più cospicua, più del 97%, del genoma umano» chiarisce Sonia Garritano del Cibio, prima autrice dell’articolo insieme ad Alessandro Romanel. «Poiché questa parte cospicua del DNA non produce proteine e non si capiva quale altro ruolo avesse, per molto tempo è stata ignorata e sottovalutata. Grazie a molti studi, oggi sappiamo, invece, che il DNA non-codificante svolge importanti funzioni regolatrici dei geni e può essere implicato nella suscettibilità ad alcuni tipi di tumore. È proprio in questa parte di DNA che abbiamo concentrato la nostra attenzione».

Ma cosa si è cercato con questo studio? Lo spiega Romanel: «Dato che il tumore è fortemente influenzato dagli ormoni, una volta conosciuta la sequenza del genoma, siamo andati a caccia di particolari porzioni del DNA in grado sia di regolare l’attività dei recettori ormonali sia di dare origine al tumore. In particolare, abbiamo considerato il ruolo del recettore degli androgeni, controllato da ormoni, che non soltanto è fondamentale nello sviluppo della prostata, ma svolge anche una funzione chiave nella regolazione e progressione tumorale. Abbiamo cercato un legame tra questi pezzetti di sequenza con caratteristiche specifiche e le alterazioni tipiche delle cellule tumorali. E abbiamo così stabilito un “ponte” tra il materiale genetico ereditario e le caratteristiche specifiche della malattia».

Per dimostrare l’ipotesi iniziale, i ricercatori hanno preso in esame il DNA di oltre 500 individui affetti da tumore alla prostata, insieme a quello di più di 3.000 individui “controllo” (non affetti da tumore). Per l’analisi sono stati usati algoritmi computazionali e tecniche sperimentali di biologia molecolare che includono l’editing del genoma (sistema CRISPR-Cas9).

I risultati dello studio suggeriscono una strada che apre a prospettive del tutto nuove rispetto all’approccio scientifico usato finora per studiare la predisposizione alla malattia, che aveva dato riscontro positivo, ma mai del tutto soddisfacente. Naturalmente, i dati di laboratorio e computazionali dovranno ancora essere confermati in studi clinici.

I progressi della scienza medica e la prevenzione attuata con esami specifici hanno aiutato ad abbassare il rischio di mortalità, tuttavia molto c’è ancora da fare per contrastare questa patologia. Con oltre 30mila nuovi casi ogni anno diagnosticati in Italia (di cui circa 500 soltanto in Trentino Alto Adige), il cancro alla prostata è infatti uno dei tumori più diffusi nella popolazione maschile. Ne risulta colpito, in media, un italiano su otto e il numero di casi, con l’allungamento dell’età media della popolazione, è in costante aumento.

La ricerca condotta dal Cibio, iniziata nel 2012, è stata possibile anche grazie ai finanziamenti dell'Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro. Altri membri del gruppo di ricerca della professoressa Demichelis che hanno contribuito allo studio sono Blerta Stringa e Paola Gasperini. Insieme a loro hanno collaborato Alberto Inga e Anna Cereseto, sempre del Cibio. Lo studio è stato condotto in stretta sinergia con il Weill Cornell Medical College della Cornell University di New York.

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