di Roberto Tomei
Dopo Porta Pia, molti monumenti e palazzi di Roma vennero ricoperti di iscrizioni latine per celebrare il mito della Terza Roma, dopo quella dei Cesari e dei Papi. La "moda" si diffuse col fascismo, che la romanità elevò a vero e proprio culto.
Era naturale perciò che il palazzo di via Balbo, tuttora sede dell’Istat, inaugurato nel 1931, diventasse un concentrato di epigrafi, oltre che di fasci littori. Questi, insieme allo stemma dei Savoia, furono cancellati dopo il crollo del regime; le epigrafi, invece, sono rimaste, persistendo l'importanza scientifica e politica della statistica.
Gira che ti rigira, è tutta un'esaltazione dei numeri, ai quali occorre por mente, dato che in natura nulla è fortuito e nella cosa pubblica nulla si improvvisa, memori che il numero è il nodo di tutte le cose e il fondamento della repubblica.
Altre iscrizioni sormontano gli ingressi dell'edificio: una, tratta da Tacito, che affianca la dea egiziana dei calcoli, e l'altra da Tito Livio, posta ai lati di una figura di censore romano.
Diversamente dalle precedenti epigrafi, a cura del latinista Vincenzo Ussani, per tradurre queste ultime iscrizioni ci vuole un po' più di impegno. Ma oggi nemmeno questo basta più, perché un disinvolto rifacimento della facciata ha stravolto il testo originale delle lapidi, senza che nessuno se ne sia accorto. Tranne un tifoso di calcio, che nel leggere l'iscrizione tratta da Tito Livio, traslata su poster anche all’ingresso dei dipendenti, si era convinto che già all'epoca dei romani esistesse un "ETO", visto che vi si legge "ETO. HUNC" anziché "ET HUNC", oltre a "ISTIT. UTEM" al posto di "INSTITUIT".
Ma il latinorum statistico prosegue anche con Tacito, con un "TEMP ISEBUR" (più adatto a un cruciverba) al posto di "TEMPLIS EBUR".
L'Istat non sarà l'Ara Pacis, ma se c'è poca dimestichezza con il latino, per salvare la faccia(ta) tanto vale fare le iscrizioni in inglese. Che sanno tutti. O no?
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