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Venerdì, 29 Mar 2024

Parole, parole… parole cantava una disincantata Mina nel lontano ’72. Gli italiani oggi, invece, grazie anche a mezzi di informazione, che parlano sempre più con un’unica voce, sono come incantati da parole sempre più abusate (ed usate inappropriatamente) come resilienza, transizione ecologica, decarbonizzazione. Parole che sembrano prometterci un futuro luminoso.

Ma le cose stanno proprio così? No. Ma forse varando provvedimenti come il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) il governo pensa agli italiani come ad un popolo che dopo secoli di prepotenze e malgoverno siano ancora capaci di assorbirli, di affrontare e superare incolumi tutti gli eventi traumatici che capitano loro, un popolo come un metallo resiliente.

E allora, forse immaginandoci un po’ rimbambiti dal Covid, il ministro della cosiddetta (e sì, perché tutto appare meno che tale) transizione ecologica ci torna a parlare, dopo due referendum che l’hanno bocciata, di energia atomica e di decarbonizzazione pure con riferimento alle centrali a biomasse che bruciano legna o ai parchi solari fotovoltaici che sottraggono altro terreno agricolo.

Paradossalmente, se non si cambiano le politiche degli incentivi, proprio dal fronte delle energie rinnovabili rischiano di arrivare i pericoli maggiori per il paesaggio italiano, quel paesaggio che attraeva visitatori da tutta Europa sin dal XVIII secolo. E sì, perché nel Pnrr si destina un terzo delle risorse complessive ad incentivi per la realizzazione di impianti ad energia rinnovabile per generare 70 gigawatt di energia verde, necessari per ridurre del 55% le emissioni di anidride carbonica prodotte attualmente dalle centrali a gas e a carbone, che costituiscono il 60% degli impianti.

Plaude Legambiente per la quale pale eoliche e parchi solari sono l’unica soluzione per combattere il surriscaldamento globale; per il presidente Ciafani «il territorio italiano è sempre cambiato, fin da quando i romani costruivano i loro acquedotti o i geni del Rinascimento edificavano le loro magnifiche cattedrali. Le pale eoliche sono le nostre cattedrali».

L’Anie, l’associazione dei produttori di impianti ad energie rinnovabili, senza nulla dirci dei propri disservizi, lamenta di aver fermi progetti per 800milioni a causa delle lungaggini burocratiche (sono 38 gli enti coinvolti) e perciò chiede l’introduzione del silenzio assenso per alcuni passaggi e, soprattutto, che le Soprintendenze per i beni archeologici, artistici e paesaggistici non abbiano più il diritto di veto. A dire della predetta Associazione, sarebbero modifiche coerenti con la normativa europea. Ma si dimentica che esiste l’autorizzazione unica che si ottiene con una conferenza di servizi e, quanto all’Europa, ci si scorda la Convenzione europea del paesaggio, sottoscritta dall’Italia nel 2000 e ratificata dalle Camere nel 2006.

Anche il Gse, il Gestore dei servizi energetici, che eroga gli incentivi chiede una semplificazione della pianificazione territoriale con la individuazione di aree idonee ad ospitare grandi impianti di energia rinnovabile.

Dagli incentivi, invece, e ne siamo contenti, sono rimasti fuori i produttori di energia a biomasse solide, che usano come carburante teoricamente gli scarti dei boschi.

Ora, è vero che c’è stato chi ha chiesto di cestinare la nostra Costituzione per vararne una attenta alle necessità di un’economia ultra liberista in cui la finanza la fa da padrona, ma gli italiani - lo hanno ribadito nel 2016 - ritengono la Carta fondamentale, anche a distanza di 74 anni dalla sua promulgazione (il 27 dicembre 1947), una delle più avanzate del mondo occidentale. Ma, purtroppo, anche una delle più inattuate.

Paradigmatico l’esempio dell’articolo 9: “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», che pur posto tra i principi fondamentali della Repubblica è stato poco e male attuato. Forse, se a difesa del paesaggio non ci fossero stati i combattivi e tenaci militanti di associazioni, come ad esempio, Italia Nostra, oggi la devastazione sarebbe completa.

L’aver incluso la tutela del paesaggio tra i Principi Fondamentali della Repubblica comporta l’assunzione di questo compito tra quelli primari da assolvere per la collettività e, conseguentemente, sta ad indicare la preminenza dell’interesse alla tutela di questo bene rispetto agli interessi economici di alcuni.

I padri costituenti dimostravano attraverso quel testo di avere una visione lungimirante del paese, che contemplava un modello di sviluppo sostenibile in cui le attrattive culturali e paesaggistiche potevano essere un volano economico attraendo turisti da tutto il mondo.

Il paesaggio italiano è un unicum – risultante dall’intreccio di civiltà e culture diverse che nel corso dei millenni sono vissute sul territorio lasciando le proprie tracce, non solo nel più ricco patrimonio di beni culturali al mondo, ma anche in un patrimonio ambientale composto da boschi, campagne, specie vegetali, tecniche di coltivazione – che nei secoli scorsi attraeva giovani da tutta l’Europa, che venivano a fare il cosiddetto Grand tour.

Non si può certo dire che dal punto di vista legislativo non si sia fatto nulla, d’altronde, già prima del varo della nostra Carta fondamentale, nel 1922 Benedetto Croce si fece promotore della legge n. 778, “per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico”, rimasta in vigore fino al 2009. Vi è un ricco corpus normativo a tutela del paesaggio e di accordi a livello europeo ed internazionale che però registra una serie di stop and go, di deroghe, di eccezioni.

Da ultimo, con la citata Convenzione europea per il paesaggio si incoraggia quella partecipazione dei cittadini che poco piace agli imprenditori energetici e si indicano le politiche, gli obiettivi, la salvaguardia e la gestione del patrimonio paesaggistico riconoscendo la sua importanza culturale, ambientale, sociale, quale componente del patrimonio europeo ed elemento fondamentale atto a garantire la qualità della vita delle popolazioni. Ne sono discesi una Rete europea di enti locali e regionali per l’applicazione della Convenzione (RECEP) – cui hanno aderito 11 Regioni (compresa la Regione Basilicata), 6 Province e 4 Comuni italiani – affiancata da UNISCAPE, costituita da università europee (attualmente sono 42) per sostenere e rafforzare la ricerca scientifica in materia di paesaggio, e poi una serie di Osservatori: uno nazionale ed altri regionali, che risultano quasi silenti.

Tutto bene? No, perché di pari passo, dando la priorità ad interessi economici, si è proceduto, di fatto, ad un allentamento della tutela. Prova ne sia che via via alle Soprintendenze è stato assegnato un ruolo sempre più marginale (e c’è chi le vorrebbe fuori dalle procedure): un mero controllo successivo sulle autorizzazioni rilasciate dai Comuni, da espletarsi entro e non oltre 45 giorni, per verificare che esse rispettino i piani paesaggistici vigenti.

Certo, una Convenzione non ha di per sé valore di legge, tuttavia, gli Stati che l’hanno approvata si impegnano a fare leggi ispirandosi ai suoi principi. Una cosa è certa, un paesaggio salvaguardato e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro. Il rispetto e la valorizzazione della qualità del paesaggio rappresentano un’occasione per una crescita sostenibile dei territori, ciononostante si preferisce favorire solo gli interessi forti, di pochi.

 

Pochi e improvvidi se, come ci racconta il consigliere nazionale di Italia Nostra Vitantonio Iacoviello (foto sopra), «le valutazioni ambientali per alcuni progetti, fra cui eolici e fotovoltaici, spesso sono pieni di superficialità ed inesattezze, questo modo di fare induce le amministrazioni a richieste di integrazioni a catena allungando i tempi – e aggiunge – come ho potuto constatare io stesso quando ho dovuto lavorare tre anni per scoprire gli altarini riuscendo a far bloccare 58 pale su 72 (nella zona del subappennino dauno meridionale, ndr), per 4 progetti presentati, progetti fotocopia, al punto che un sito lucano viene piazzato alle pendici del monte Stagnone che invece si trova in Sardegna».

Interessi che, quando si parla di energia, hanno generato paradossi, come il fatto che il singolo cittadino non possa autoprodurre l’energia che consuma, ma deve finanziare con la sua bolletta la costruzione di mega impianti. Anche con il Pnrr si è seguito uno schema miope che tutela solo le aziende distributrici. Se si fossero dati gli incentivi per autoprodurre l’energia senza dover sottoscrivere contratti con le aziende energetiche per cederla, che rendono l’operazione poco conveniente, oggi sui tetti italiani ci sarebbe una selva di mini impianti eolici e di pannelli solari che, ormai, vengono prodotti in fogge tali da non deturpare neppure il paesaggio dei centri storici.

Se le famiglie e i condomìni avessero adeguati incentivi per installare tali dispositivi si potrebbe ottenere qualche gigawatt in più l’anno (ma le aziende erogatrici parlano di soli 400 megawatt), e se si provvedesse a farlo anche su tutti gli edifici pubblici, pensate solo a quante scuole ci sono, la spinta sarebbe ancora maggiore. Anche gli ambientalisti sarebbero d’accordo, dice sempre Vitantonio Iacoviello «Va bene la transizione del foto-voltaico sui tetti non di pregio, quella intelligente, distribuita e socialmente equa, quella che crea lavoro vero e duraturo».

Adriana Spera
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