di Roberto Badel
"Felicità. Ti ho perso ieri ed oggi ti ritrovo già", così intona un noto cantante rock italiano (con laurea honoris causa in scienze della comunicazione) in una bella canzone che narra di un uomo che ha sofferto per amore, ma, dopo aver vagato un po' per le strade, casualmente ritrova la felicità entrando in un bar dove, tra canzoni, fumo ed allegria, conosce una nuova inaspettata compagnia.
E "statistico rock" è stato di recente definito dal settimanale Panorama il presidente dell'Istat Enrico Giovannini, uno dei principali animatori dell'odierna riflessione sul rapporto tra felicità ed economia.
Un dibattito scaturito sull'onda del cosiddetto Rapporto Stiglitz, dal nome del noto premio Nobel per l'economia posto alla guida di una commissione di 25 economisti di fama mondiale (tra cui Amartya Sen, Jean Paul Fitoussi e lo stesso Giovannini) dal Presidente francese Sarkozy.
Tra le sue raccomandazioni finali, il Rapporto comprende quella dell'introduzione di indicatori per la misurazione del benessere, della qualità della vita e della felicità della popolazione (non erano mancati, comunque, già in anni precedenti, contributi sul tema su importanti riviste di teoria economica). Anche per l'idea di felicità in economia si è trattato di un ritorno (vedremo più avanti quanto reale), però più sofferto e quindi meno repentino di quello descritto nel testo della canzone.
Tra felicità ed economia la storia è infatti vecchia quanto la scienza economica stessa, quindi risalente al XVIII secolo, grazie in particolare al contributo degli economisti italiani dell'epoca che, è stato autorevolmente affermato, "per capacità analitica erano superiori alla maggior parte dei loro contemporanei spagnoli, inglesi e francesi" (J. A. Schumpeter, Storia dell'analisi economica, ed.it. 1959).
Essi si occuparono "non tanto, come Adamo Smith, della ricchezza delle nazioni, quanto della felicità pubblica, e ne fanno fede i titoli stessi delle opere economiche" (A. Loria, La scuola economica italiana, 1893) che, secondo Schumpeter, "erano sistemi di economia politica nel senso di economia del benessere" (op. cit.).
Due tradizioni diverse di intendere l'oggetto dell'economia, presenti dunque già ai suoi albori: mentre "per gli inglesi è una scienza isolata; è la scienza d'arricchire le nazioni, e questo è l'oggetto esclusivo delle loro ricerche. Per lo contrario gli Italiani la riguardano come una scienza complessiva, come la scienza dell'amministratore, e la trattano in tutte le sue relazioni colla morale, colla felicità pubblica" (G. Pecchio, Storia della economia pubblica in Italia, 1829). La felicità è presente in tanti trattati di economisti del tempo.
Ad esempio in Pietro Verri, il quale affermava che "l'oggetto della pubblica economia è promuovere l'industria conducente alla felicità pubblica" (Riflessioni sulle leggi vincolanti, 1769).
E in tutti quanti la rinveniamo sempre nella forma della "felicità pubblica" a rimarcarne la sua raggiungibilità solo dal punto di vista del bene comune, dell'individuo concepito in società.
Come in Antonio Genovesi, titolare della prima cattedra di economia in Europa: "ogni famiglia e ogni persona è obbligata a procurare, quanto sa e può, la comune felicità, per due obblighi, l'uno de' quali è l'interno della natura, e l'altro quello de' primi patti continuati ne' posteri per lo vivere in comunità" (Lezioni di commercio, 1765).
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