di Antonio Del Gatto
“Resto anch’io? No, tu no”. Non si tratta di una rivisitazione del titolo della famosa canzone di Enzo Jannacci, ma della paradossale situazione in cui può venire a trovarsi il dipendente pubblico, a seguito di una delle tante disposizioni contenute nella tristemente nota “manovra di agosto” (divenuta legge il 16 settembre).
Al compimento del 65° anno di età, il dipendente - soprattutto se non ha raggiunto il massimo della contribuzione - può chiedere all’ente di essere trattenuto in servizio fino a un massimo di due anni. Se fino al 2008, per l’amministrazione era un obbligo accogliere l’istanza, con l’entrata in vigore del decreto legge 112/2008, è diventata una mera facoltà.
E addirittura, con la citata “manovra d’agosto”, è venuto anche meno l’obbligo per l’amministrazione di dare riscontro all’istanza, così applicandosi il silenzio-diniego.
Di contro, al compimento del 40° anno di contribuzione da parte del lavoratore, a prescindere dall’età anagrafica dello stesso, all’ente è data facoltà, salvo il preavviso di sei mesi, di risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro. In quest’ultimo caso, il trattamento pensionistico scatterà dopo un anno, durante il quale il dipendente verserà contributi a vuoto, vale a dire ininfluenti ai fini del calcolo della pensione.