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Mercoledì, 03 Lug 2024

di Maurizio Sgroi*

Ogni tanto mi capita di incontrare un vecchio amico o un ex collega giunto felicemente all’età della pensione. I più fortunati, quelli che godono di buona salute, mente lucida, buone relazioni e una rendita pensionistica decente mi sembrano letteralmente il ritratto della felicità. “Finalmente posso fare quello che mi pare”, è la cosa che gli sento dire più spesso. E il primo pensiero che mi ispira è un benevolo “beato te”, insieme all’augurio di un post-pensionamento più felice e lungo possibile. Il secondo è che quelli come lui appartengono a un genere in via d’estinzione. Ossia coloro che vanno in pensione a un’età in cui non si è del tutto decrepiti e con una rendita (ad avercela) che non sia di sussistenza.

Tecnicamente il pensionato vive di rendita. Come i rentier di una volta ha accumulato un capitale, frutto del suo lavoro, e lo ha investito in un titolo permanente garantito dallo Stato: il bond previdenziale. Tale investimento produce una rendita che una volta veniva calcolata con un sistema assai vantaggioso per l’investitore (il retributivo) e adesso molto meno (il contributivo). A differenza dei grandi rentier di un tempo, che potevano contare su vasti patrimoni come d’altronde quelli di oggi, il pensionato assomiglia più al piccolo rentier di un secolo fa, quando i sistemi previdenziali erano ancora agli albori, che comprava un titolo permanente a tasso fisso dallo Stato dopo aver faticosamente risparmiato una vita e viveva dell’interesse, potendo contare su un sistema di prezzi alquanto stabile, almeno fino alla prima guerra mondiale, quando tutto crollò.

Il sogno di vivere di rendita, tuttavia, non è mai tramontato. E non è un caso che una delle grandi conquiste del XX secolo sia stata l’estensione di un diritto (campare di rendita, ossia fare quello che ci pare), una volta riservato solo alle élites e ai borghesi più o meno grandi. E poco importa che le pensioni pubbliche fossero una trovata della Germania di Bismarck per assicurarsi vita natural durante la fedeltà dei dipendenti pubblici. Una volta che le pensioni si estesero in tutti i paesi sviluppati, si è persa persino la memoria del retropensiero quasi reazionario che le aveva originate.

Poi arrivò Keynes che nel suo libro “La Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” del 1936, sviluppando pensieri già contenuti in uno scritto di dieci anni prima intitolato “Laissez faire and communism”, auspicò l’eutanasia del rentier come rimedio alla scarsità del capitale e quindi al freno dello sviluppo dell’economia. Una volta che i rentier si fossero estinti, per il semplice fatto che non veniva reso più conveniente detenere capitale improduttivo, la situazione generale del sistema economico non poteva che giovarsene.

Con la nuova riforma delle pensioni, maturata negli ultimi vent’anni, l’eutanasia del pensionato/rentier è diventata una realtà. Almeno per gran parte dei futuri pensionati, che con molta fatica riusciranno a vivere di rendita con le loro pensioni. Sempre che riescano ad averne una.

Se guardiamo al caso italiano, il bilancio dell’Inps ci dice con chiarezza che l’equilibrio generale della previdenza pubblica viene sostanzialmente garantito dalla gestione positiva del fondo dei lavoratori parasubordinati. Quindi i precari. La normativa invece ci dice che, in media, coloro che andranno in pensione dopo 40 anni di contributi o 66 anni di età, avranno una rendita, agli attuali tassi di sostituzione, pari a circa il 50-60% dell’ultimo stipendio. Questo ad oggi, visto che la normativa prevede revisioni periodiche di tali tassi e un sostanziale allungamento dell’età pensionabile, talché chi oggi si trova nel mezzo della propria vita rischia seriamente di non poter lasciare il lavoro prima dei 70 anni. Peggio ancora va ai più giovani, che a furia di lavori trimestrali una volta sì e una no rischiano di non riuscire mai a raggiungere la quota magica dei 40 anni di contributi e potranno lasciare il lavoro solo per vecchiaia, con una rendita miserrima.

A livello globale la questione non si discosta di molto. Organismi internazionali  come l’Ocse e il Fmi non risparmiano allarmi sulla sostenibilità dei sistemi pensionistici, complici il basso tasso di natalità e la risicata crescita economica. Lo stesso fanno le banche centrali. Anche perché gli attuari calcolano che da qui al 2040 la speranza di vita dei pensionati si allungherà sino a 88 anni per gli uomini e a 92 anni per le donne. L’eutanasia del pensionato/rentier, di conseguenza, sarà “keynesianamente” vissuta come una dolorosa necessità per garantire la sostenibilità di quei bilanci pubblici cresciuti nei decenni anche in nome di politiche keynesiane. A volte la storia economica coltiva un perfido senso dell’ironia.

Rimane la questione di cosa farne di questa pletora di anziani a mezza pensione da qui a trent’anni. Nel primo dopoguerra, quando l’eutanasia del rentier non era ancora stata teorizzata ma praticata grazie all’iperinflazione, si videro intere masse di popolazione letteralmente alla fame. Dopodiché ci fu un’altra guerra.

Sta a vedere che stavolta al fronte ci andranno le pantere grigie.

*socio-economic journalist
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