di Antonio Del Gatto
Il lavoratore che subisce vessazioni da parte del suo dirigente non deve reagire in modo forte alle offese. Se lo fa, non potrà intraprendere alcuna azione volta a ottenere il risarcimento del danno da mobbing.
A stabilire il principio è stata la Corte d’Appello di Ancona che, con la sentenza n. 1199/2013, ha respinto il ricorso di un lavoratore, che lamentava per i ripetuti insulti da parte datoriale.
Al ricorrente, in particolare, erano state rivolte dal suo superiore frasi offensive del tipo: «vai a pulire i cessi». Il destinatario delle pesanti frasi, però, non era rimasto inerte, ma aveva ribattuto colpo su colpo, insultando a sua volta il dirigente.
Per questo i giudici, confermando il verdetto di primo grado, hanno escluso l’esistenza di una patologia legata alle numerose vessazioni, ricordando che la violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi imposti dall’art. 2087 c.c. al fine di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore non è condizione sufficiente a determinare l’esistenza di un danno alla salute, poiché grava sul lavoratore l’onere di provare in maniera dettagliata l’esistenza del pregiudizio sofferto, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso causale tra l'uno e l'altro.
Pertanto, non possono rientrare nella fattispecie di mobbing, normali e, spesso, frequenti, conflitti in ambiente di lavoro, caratterizzati sì da attacchi sgradevoli da parte del datore di lavoro, ma con reazioni del dipendente, che si ritiene colpito da un atto arbitrario o illegittimo.
Il lavoratore, dunque, se vuole coltivare qualche speranza di vedersi riconosciuto in tribunale un risarcimento da mobbing, deve subire in religioso silenzio.