di Flavia Scotti
La questione è davvero antica e spesso si ripropone sui posti di lavoro. Ci riferiamo alla richiesta che il lavoratore fa al suo diretto superiore affinché l’attribuzione delle mansioni venga fatta per iscritto.
I dirigenti appaiono restii ad assecondare i dipendenti, tergiversano, prendono tempo e, solo di fronte alle reiterate insistenze del lavoratore, si decidono ad accogliere la richiesta. Altri, invece, sono prodighi di attestati di ogni genere, non per tutti ma per alcuni dei propri subalterni, soprattutto quando si tratta di accumulare “titoli” da far valere in sede di progressione di livello professionale.
Stante la contraddittorietà dei comportamenti, la questione è inevitabilmente approdata nelle aule dei tribunali, dove un dipendente ha dovuto far valere le sue ragioni perché fosse annullato il provvedimento di licenziamento adottato nei suoi confronti dal datore di lavoro a seguito di un alterco seguito al mancato accoglimento della richiesta di assegnazione per iscritto delle mansioni da svolgere.
Dopo due gradi di giudizio, favorevoli al lavoratore, la vicenda è approdata in Cassazione che, con sentenza n. 21922, depositata il 25 settembre 2013, ha posto la parola fine alla storia iniziata a gennaio del 2008.
I giudici della sezione lavoro della Suprema Corte, nel confermare l’esito dei precedenti giudizi, hanno anche chiarito che la richiesta scritta delle mansioni non rappresenta “un rifiuto tout court di eseguire la prestazione ma solo della richiesta di ordine scritto di assegnazione di nuovi compiti.
Il giudice di merito – puntualizza la Cassazione – ha ritenuto giustificata tale pretesa valorizzando, tra le altre, la circostanza delle possibili responsabilità, e quindi conseguenze negative per il lavoratore, in caso di errore nella esecuzione di compiti che aveva accertato essere estranei non solo alle mansioni di impiegata amministrativa ma alla formazione professionale della dipendente.
Tale valutazione – continua la Corte - resiste alla denunzia di parte ricorrente (il datore di lavoro, ndr) che ne sostiene la incompatibilità con il potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro e con l’efficienza dell’azienda. L’adozione della forma scritta nell’assegnazione di nuovi compiti al dipendente – puntualizzano i giudici – non si pone, infatti, in linea generale, intrinsecamente in contrasto con i poteri organizzativi e direttivi, facenti capo alla parte datoriale, né appare tale da pregiudicare l’efficienza e l'ordinato svolgersi dell’attività.
Nello specifico – concludono gli Ermellini – tenuto conto della peculiarità della vicenda, soprattutto del fatto che le mansioni di nuova adibizione, non rientrando nel bagaglio professionale della dipendente, la esponevano a possibili errori nella esecuzione dei nuovi compiti, la valutazione del giudice di appello, che ha affermato la legittimità della richiesta di formalizzazione per iscritto, appare rispondente a criteri di logicità e congruità".
Al datore di lavoro altro non è rimasto che pagare le spese di giudizio.