di Adriana Spera
Siamo ormai al quinto anno di una crisi economica determinata da assurde politiche liberiste che via via hanno condotto alla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi avventurieri della finanza e all'impoverimento progressivo dei lavoratori. Una crisi incancrenita dall'accanimento terapeutico delle ricette monetariste imposte da Unione europea, Fondo monetario internazionale e Banca centrale europea, convinte che si possa uscire dal pantano esclusivamente puntando sul pareggio di bilancio degli stati dell'area euro e, quindi, cancellando quel welfare state simbolo della civiltà europea. In altri termini, facendo pagare il conto ai più deboli.
I risultati sono sulla pelle di tutti: precarietà, sottoccupazione e un livello di disoccupazione che non si registrava da trentacinque anni e che per i giovani supera il 42%, mentre altri 200.000 disoccupati rischiano di produrli i tagli di personale nella pubblica amministrazione. Ma se allora l'accesso a scuola e università era garantito quasi a tutti e con esso una possibilità di riscatto sociale, oggi dopo l'eutanasia dell'istruzione pubblica determinata da una serie di “riforme” assurde, solo da ultima la legge Gelmini, hanno riportato in auge il fenomeno della dispersione scolastica e con esso un ulteriore bacino di sfruttati.
Una classe politica incapace di elaborare un progetto per il rilancio del paese, attenta solo ai poteri forti, fa sì che non si possano avere speranze di un futuro migliore per giovani e meno giovani.
Eppure basterebbe fare poche cose per far crescere l'occupazione: un serio investimento in istruzione pubblica e ricerca; un piano di opere pubbliche necessarie a risanare il territorio e gli immobili pubblici come le scuole e il patrimonio artistico, anziché di opere tanto grandi quanto inutili e devastanti; un piano energetico nazionale basato sulle fonti rinnovabili. Invece, si investe su opere assurde come la Tav o nell'acquisto degli F35, che andranno ad arricchire poche realtà produttive. Basterebbero le risorse buttate per queste due voci di spesa unitamente ad serio contrasto dell'evasione fiscale, per far ripartire il paese.
In questi anni, a pagare il conto più salato sono stati i pubblici dipendenti, che già dal 2001 hanno subito, dapprima, una sorta di sterilizzazione dei rinnovi contrattuali e, dal 2009, il blocco dei contratti, che permarrà fino al 2017, facendo perdere mediamente nell'intera vita lavorativa, pensione inclusa, decine di migliaia di euro, come abbiamo dimostrato con un articolo apparso sul Foglietto del 22 gennaio scorso.
Ciononostante v'è chi si diletta ad additarli come una delle cause del deficit, in barba alla circostanza, sotto gli occhi di tutti, di un disavanzo pubblico raddoppiato da quando sono in auge privatizzazioni ed esternalizzazioni. Ma prendersela con i dipendenti e le aziende pubbliche è utile per poter svendere queste ultime e spartirsi gli appalti sui servizi.
Il risultato di queste politiche governative è un progressivo impoverimento della popolazione: il 9,5% è sotto la soglia di povertà, il 50% delle pensioni è sotto i mille euro, molti perdono la casa perché non possono pagare il mutuo o l'affitto.
Come se tutto ciò non bastasse, si vogliono ridurre i pochi diritti rimasti con uno stravolgimento in senso autoritario della Costituzione, ad opera di un Parlamento e di un governo (quello Letta-Alfano) di risulta, che hanno dato vita ad una maggioranza raccogliticcia che, appunto, non ha, né può avere, data la sua genesi, un progetto per il paese, come dimostra la legge di stabilità appena proposta che, forse, restituirà in media ai lavoratori circa 150 euro l'anno.
Mentre con la nuova imposta Trise, che incorporerà Imu e Tares, se ne pagheranno mediamente 366.