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Giovedì, 04 Lug 2024

di Maurizio Sgroi*

Terra di terme, suadenti declivi montuosi e fortunati casinò, la dolce Slovenia, una volta ricca, sente il crescente rimbombo dei tamburi dei creditori farsi spazio verso la Lubiana.

Qui nella capitale, una volta famosa per il suo barocco sposato con l’art nouveau, e oggi per essere l’epicentro di una crisi finanziaria, il vociare preoccupato dei banchieri internazionali si manifesta nel consueto balletto che vuole una crisi economica diventare politica e quindi di nuovo economica. E da lì degenerare nell’epica del salvataggio, che come ogni epica sottintende bugie e verità, eroismi e vigliaccate, speranze e disperazioni, componendosi tutte queste dialettiche solo grazie ad abbondanti dosi di lacrime e sangue. L’epica del salvataggio, per sua stessa conformazione, è particolarmente menzognera. O quantomeno distratta.

Si parla tanto di bail-in, a significare che i fallimenti bancari domani li pagherà chi ha avuto la dabbenaggine di prestare i suoi soldi a una banca. Ma pochi sanno che la Slovenia il suo piccolo bail-in già l’ha fatto, sottraendo 400 milioni a vari obbligazionisti subordinati nell’ambito del vasto piano di ricapitalizzazione bancaria richiesto, sempre a gran voce, dai soliti creditori. Certo, è vero che il conto più grosso l’ha pagato lo Stato, ossia i cittadini, che ha versato 2,1 miliardi di euro cash nelle sue tre banche oltre ad altri 900 milioni di euro di bond governativi scontabili, oltre ad essersi accollato 300 milioni di sofferenze (NPLs).

L’asset quality review “indipendente” sullo stato degli attivi bancari deciso dalla Slovenia a fine 2013, affidato a Deloitte, Ernst&Young e a Oliver Wyman, i cui risultati sono stati pubblicati a metà dicembre scorso, ha evidenziato una carenza di capitale da 4,8 miliardi di euro, di cui, appunto, 3,7 a carico delle tre banche statali, 700 milioni a banche private domestiche e 400 milioni a tre sussidiarie di banche estere.

Quest’accenno di via crucis, tutt’altro che concluso, mostra, come vedremo, che Lubiana, prima ancora che della Slovenia, è ormai la capitale dell’eurozona così com’è: un tremendo casinò, dove chi ha avuto adesso deve ridare secondo l’implacabile legge dell’interesse composto, e al tempo stesso un casino, quindi luogo di perdizione e/o confusione, come l’intende l’accezione comune (e quindi volgare) del termine e quindi letteralmente diabolico. In quanto tale ha perfettamente senso che il conto lo paghi il banco. Quindi il paese.

L’epica slovena è ben riassunta nell’ultimo staff report pubblicato dal Fmi a gennaio già dalle prime pagine. “Intorno al periodo di adozione dell’euro nel 2007 – scrive – la Slovenia ha vissuto un boom del settore degli investimenti e delle costruzioni finanziato dall’estero che mascherò le sue debolezze strutturali. La crisi finanziaria globale ha causato un blocco dei finanziamenti esteri e una notevole caduta del Pil. Dopo una breve stabilizzazione nel 2010, la recessione è ripartita nel 2011 e l’economia si è contratta per otto trimestri consecutivi. Complessivamente il Pil reale è caduto dell’11% dal suo livello di picco pre-crisi, la più grossa perdita di prodotto fra i membri dell’eurozona dopo la Grecia”.

Potremmo finirla qua e risparmiarvi il resto, che già conoscete, visto che il copione è quello di sempre. La caduta dell’attività economica ha devastato le banche, che si erano riempite di debito privato estero, aggravando ulteriormente la recessione e facendo esplodere le sofferenza bancarie e il de-leveraging. Di conseguenza è esploso il debito pubblico, che prima della crisi viaggiava a un rassicurante 22% del Pil, arrivato al 55% a fine 2012. Il banco, appunto, è stato chiamato a pagare il conto dei debiti, con un deficit fiscale arrivato al 4% nel 2013 e uno spread a 200 punti, non sulla Germania però, ma sull’Italia.

L’allarme, che ha condotto alla solita cura di disindebitamento forzato, crollo dell’import, aumento della disoccupazione e relativo crollo del costo del lavoro (-6% solo nel 2013), ha permesso alla Slovenia di collocare un bond a tre anni con uno spread di 465 punti sulla Germania. Ed ecco che l’epica diventa cronaca.

E la cronaca ci racconta del conto corrente della BdP sloveno che torna miracolosamente in surplus, “ma solo grazie al calo dell’import”, spiega il Fondo, seguendo le dinamiche che ormai conosciamo bene. Senza che ciò però migliori le prospettive per il piccolo paese. Perché è vero che la competitività è aumentata, pure se al prezzo di un costo unitario del lavoro crollato a quota indice 96, quando era 100 nel 2008. Ma è vero altresì che le banche slovene sono ancora in mezzo al guado, con una percentuale di sofferenze che supera il 24,5% per le banche pubbliche e addirittura al 38,3 per il settore corporate, e prospettive di crescita ancora a dir poco esitanti, con una crescita che dovrebbe tornare positiva solo nel 2015, eurozona permettendo.

Nel frattempo i bilanci delle banche continuano a deteriorarsi. Gli asset sono diminuiti del 6,3% nel 2012 e di un altro 3,4% nel 2013 e solo l’aver attinto a piene mani ai fondi generosamente elargiti a basso costo dalla Bce ha permesso alle banche slovene di rimanere faticosamente in piedi. Nella contabilità generale dei prestiti ottenuti a Francoforte, la Slovenia si colloca subito dopo il Portogallo, con una quota di prestiti che sfiora l’8% del totale degli asset bancari.

A questo punto il banco non poteva che intervenire, mettendo un bel pacco di fiches sul tavolo. Gli avventori del casinò ormai rumoreggiavano. D’altronde a fine 2012 la Slovenia aveva accumulato un debito estero sul pil pari al 116%.

Sicché nel 2012 fu fondata la BAMC, un’agenzia pubblica soggetta al controllo della Court o Audit e del Parlamento, guidata da un board dove siedono “noti esperti esteri”, al quale è stato dato il diritto di emettere fino a 4 miliardi di euro di bond garantiti dal governo tramite i quali ristrutturare il settore corporate e le banche. La prima mossa del BAMC è stata comprare 4,6 miliardi di asset ballerini dalle banche statali in crisi, pagandoli a prezzo di realizzo, quindi circa 1,6 miliardi, e non si esclude debba ripetere l’operazione in futuro, visto che le autorità stanno pensando di estendere la durata del BAMC ancora per un decennio. Questo per dire quanto si pensa durerà il casino/ò sloveno.

D’altronde è difficile fare diversamente. Il settore corporate sloveno “è uno dei più indebitati dell’euroarea”, scrive il Fondo, eredità del passato, quando le banche finanziavano a rotta di collo qualunque cosa. Con la conseguenza che molte imprese si trovano oggi in grave difficoltà pure solo a rendere sostenibile il pagamento degli interessi. Anche qui, è facile prevedere che il conto dovrà pagarlo il banco, visto che la strategia multi approccio ipotizzata dal Fmi prevede iniezioni di liquidità, ristrutturazione dei debiti e trasferimento di azioni delle imprese in crisi alle banche pubbliche, salvo poi attivare i soliti piani di privatizzazione.

Ma non basterà certo questo. Accanto alla graduale fuoriuscita dello stato dall’economia, il Fmi incoraggia a fare progressi rilevanti (leggi consolidamenti) sul fronte fiscale, riformare il mercato del lavoro e le pensioni e darsi una robusta svecchiata, al fine di attirare una quota crescente di investimenti diretti dall’estero che, secondo il Fondo, sono la miglior fonte possibile di lavoro.

Finirà, insomma, che la Slovenia, a furia di giocarci, dovrà pure vendersi i casinò.

Socio-economic journalist*
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