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Giovedì, 04 Lug 2024

di Maurizio Sgroi*

Mai ipocrisia in economia fu più raffinata di quella esemplificata dal paradosso di Triffin sulla moneta internazionale. Il famoso economista disse, semplificando, che fare di una moneta nazionale (nella fattispecie il dollaro) una moneta internazionale era una sicura fonte di squilibri, visto che il mondo avrebbe dovuto sopportare un crescente deficit nella bilancia dei pagamenti americana per poter disporre della liquidità necessaria e sufficiente a garantirsi la crescita.

I fatti, come tutti sanno, hanno dato ragione a Triffin. E nel dibattito accademico c’è un’ampia quota di economisti che sono convinti che sarebbe più efficiente disporre di una moneta internazionale per i pagamenti e soprattutto per le riserve.

Dibattito appassionante, se vi piace l’economia internazionale, ma sostanzialmente ipocrita. Il vero paradosso è credere che la buona creanza economica possa aver ragione della forza bruta. Che poi è quella americana. Di fronte all’opzione politica, necessariamente fondata sulla forza, quella economica sostanzialmente arretra intimidita. Per non parlare di quella politica.

Come esempio basti la puntuta reazione di Christine Lagarde, boss del Fmi, al recentissimo rifiuto del congresso Usa di approvare la riforma delle quote che era stata decisa dal board del Fmi a novembre del 2010. La Lagarde ha espresso un “profondo disappunto”. Chissà che risate a Washington.

All’epoca si parlò di rivoluzione, visto che la riforma prevedeva di raddoppiare il totale delle quote e trasferire un 6% dai paesi sovrarappresentati (gli Usa hanno oltre il 17% del totale delle quote) a quelli sottorappresentati, quindi gli emergenti.

La bocciatura americana fa calare il sipario sulla riforma e riporta il discorso sul terreno assai concreto dei rapporti di forza i quali, checché ne dicano gli economisti, hanno un peso specifico assai più rilevante delle bilance dei pagamenti.

E tuttavia siccome gli economisti esistono, è persino piacevole abbandonarsi alle loro elucubrazioni che illustrano quanto sarebbe bello il mondo se fosse fondato sulla razionalità economica, versione impoverita del buon senso del padre di famiglia, invece che sulla capacità di muovere le armate.

Nel caso di specie, la Bri ha pubblicato un interessante opuscoletto (“Reforming the international monetary system in the 1970s and 2000s: would an SDR substitution account have worked?”) che è anche una storia monetaria breve dei tanti tentativi frustrati di strappare agli Usa l’esorbitante privilegio, per usare le parole di De Gaulle, rappresentato dall’emettere la moneta internazionale. Tentativi anch’essi ipocriti, a ben vedere. Sui debiti americani l’Occidente prima e l’Asia poi hanno costruito la loro fortuna di crediti. Quindi il gioco “paradossale” di Triffin andava bene a tutti. E anche oggi è così, malgrado qua e là appaiano tentativi assolutamente accademici di riaprire la discussione.

Ci si prova nientemeno che dagli anni ’60, per tacere di quando ci provò Keynes nel ’44, a parlare di moneta internazionale. E il fatto che adesso sia tornata d’attualità questa roba, prendendo a pretesto la terribile crisi scoppiata nel 2008, è certo assai più che un semplice vezzo accademico. S’intravede fra le righe un desiderio di strappare alla moneta egemone la sua supremazia, trasferendola a un entità sovranazionale, segnatamente il Fmi, che dovrebbe fare dell’egemonia monetaria, ossia la gestione efficiente della liquidità internazionale, la cifra specifica del suo governare.

Viene da dire, citando un proverbio, che gli economisti fanno i piani e gli Usa, anche stavolta, ridono.

Detto ciò, è interessante leggere questo paper, anche per capire quale sia lo stato dell’arte e cosa servirebbe per arrivare al dunque.

Ma prima di esplorare la tecnicalità, serve un po’ di storia.

Già dal 1960, spiega la Bri, “c’era una preoccupazione diffusa sulla sostenibilità del sistema di Bretton Woods basandolo su una valuta nazionale”. Ma già da allora la totale indisponibilità americana a considerare il dollaro un problema comune, non soltanto nostro, spense sul nascere qualunque tipo di dibattito.

Si dovette arrivare al 1965, quando la bilancia dei pagamenti americana era ormai a fine corsa - gli Usa avevano seriamente compromesso la loro posizione di grandi creditori del mondo occidentale – perché l’amministrazione di Lyndon Johnson iniziasse ad abbozzare una forma di dialogo sul tema nell’allora G10. Tanto dibattere produsse, due anni dopo, la decisione di costruire una moneta di riserva internazionale che poteva essere creata dai paesi membri del Fmi senza però l’intento di sostituire la moneta già esistente. Riguardava più la creazione di flussi futuri di moneta internazionale, che non trovare il modo di spezzare il dilemma di Triffin.

Sicché, quando nel 1967 furono varati gli SDR (Special drawing rights , DSP in Italia) “fu un trionfo di ambiguità”, come nota la Bri. I vari paesi del Fmi la interpretarono ognuno a suo modo, celebrando ancora una volta la squisita ipocrisia che circonda le cose economiche nel nostro tempo.

Quando nel 1970 la debolezza del dollaro era ormai conclamata, e si attribuiva all’abbondante dollarizzazione dell’economia internazionale il graduale innalzamento dell’inflazione globale, i vari policy maker ricominciarono a parlare di un modo per trasformare le ampie riserve in dollari in altre valute. Fu in quell’epoca che venne fuori l’idea del “conto di sostituzione”.

Di questo espediente tecnico si parlò un decennio, poi nel 1980 l’idea fu bocciata. Lascio alla vostra immaginazione capire perché.

Il piano prevedeva che i possessori di riserve potessero rimpiazzare una porzione delle loro riserve denominate in dollari con gli SDR emessi dal Fmi. Nel 1973, quindi dopo la fine del sistema di Bretton Wood determinata dallo sganciamento del dollaro dall’oro del 1971, il Tesoro americano si disse pronto a una conversione globale di alcune delle riserve denominate in dollari con SDR. Tuttavia prevalse la diffidenza: il Tesoro Usa avrebbe dovuto comunque garantire il valore delle obbligazioni in SDR che avrebbero sostituito quelle denominate in dollari. E c’era il rischio evidente, se la remunerazione di queste nuove obbligazioni fossero state troppo generose rispetto a quelle garantite dal Tesoro Usa sulle proprie, che il piano non passasse. Come poi effettivamente successe.

Questo è un problema che persiste anche oggi: se il tasso delle obbligazioni denominate in SDR è troppo elevato rispetto a quello denominato in dollari, gli americani hanno tutto da perderci e nulla da guadagnarci a sponsorizzare un’operazione siffatta. E certo non sono così generosi da cumulare il danno derivante dalla perdita della moneta internazionale alla beffa di pagare pure il conto.

Comunque sia, nel 1973 il direttore esecutivo del Fmi, William Dale, definì il “conto di sostituzione” semplicemente come “un interessante esercizio accademico”, spiegando che “fino a che i vari promotori non avessero trovato il modo di trovare un accordo sul problema delle obbligazioni finanziarie del centro di riserva si sarebbero fatti pochi progressi”. L’ipocrisia svelata, viene da dire. Chi sia il “centro di riserva” non devo certo spiegarvelo io.

Dal ’73 al 1980 furono elaborate altre proposte, dalle quali emergeva il chiaro desiderio dei paesi europei, specie quelli in surplus, che gli Usa mettessero sufficienti denari sul tavolo per garantire la conversione in SDR. Ma poi la crisi energetica di quegli anni, l’inflazione, i tassi di cambio  fluttuanti e l’esplosione della stagnazione in deficit fecero scivolare il “substitution account” nella parti basse dell’agenda del Fmi.

Se ne continuò a parlare solo nei vari comitati tecnici, sempre con l’ipoteca della posizione statunitense che, disse il negoziatore che lavorava sul dossier nel 1979, “non sono disposti a sopportare più della metà del rischio di cambio”, la qualcosa piaceva poco agli europei, che avevano già accumulato cospicue riserve.

Fra tutti vale la pena registrare la presa di posizione tedesca. La Germania, già all’epoca economia export-led, temeva che la conversione dei dollari in SDR potesse scatenare una fuga dal dollaro verso altre monete di riserva come il marco, la qualcosa avrebbe danneggiato il suo saldo commerciale.

Emerge quindi, sin da allora, una mutua comunità di intenti fra il grande debitore americano e i grandi creditori, europei e poi asiatici, ai quali faceva comodo che lo squilibrio delle bilance dei pagamenti finanziasse sostanzialmente il loro export e quindi, indirettamente, la loro crescita.

Questo patto silente è entrato in crisi nel 2008, anche sulla spinta delle economie emergenti. Che infatti hanno spinto parecchio per riformare la governance del Fmi. Inutilmente.

Lo studio ricorda l’intervento del governatore della banca centrale cinese del 2009, che fece scalpore perché per la prima volta da decenni la riforma del sistema monetario internazionale tornava d’attualità, sospinto dal più rilevante creditore e accumulatore di riserve americane.

Ecco quindi che anche il dibattito sul substitution account ha ripreso corpo. Ma sono ancora sul tappeto gli stessi problemi di trent’anni fa: come regolare i rapporti fra il valore del dollaro e quello dell’SDR? Se il dollaro si rafforza inevitabilmente si creerà un effetto calamita verso la moneta americana quale valuta di riserva. E come regolare il rapporto fra i tassi degli asset denominati in dollari e quelli in SDR? Detto in altre parole: chi paga?

E’ chiaro a tutti che attuare un progetto così ambizioso costa una barca di quattrini (dollari o SDR che siano) e anche l’espediente “politico” di usare risorse del Fmi è comunque sottoposto a una chiara ipoteca politica, visto che il Fmi ha i suoi bravi azionisti statali, fra i quali, manco a dirlo gli Usa fanno la parte del leone.

Ed è proprio sulla questione della condivisione dei costi, al di là della questione più autenticamente politica (la fine dell’egemonia monetaria americana), che si concentra l’attenzione degli economisti. Gli Usa, spiega la Bri, non hanno accettato né accetteranno mai di pagare il costo della sostituzione. Sarebbe come acconsentire di pagare finalmente i propri debiti, sulla cui espansione senza freni si è costruita la fortuna dell’Occidente.

Ma è evidente che se tutti contribuissero a pagare il conto, ciò equivarrebbe a una sostanziale resa dei conti complessiva. Una Grande Compensazione. Che però nessuno sembra aver interesse a mettere in campo. Né i debitori né, per motivi opposti, i creditori.

Anche perché a compensazione avvenuta il Fmi potrebbe diventare ciò che doveva diventare, ossia una sorta di banca centrale internazionale.

Questo è il piano.

Gli Usa, ovviamente, continuano a ridere.

Socio-economic journalist*
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