Nell’ultimo decennio, il tasso crescente di disoccupazione, soprattutto giovanile, strettamente legato ai rapidi e continui cambiamenti dell’organizzazione economico-produttiva ed al processo di globalizzazione, ha posto la questione della maggiore flessibilità del lavoro e di una maggiore mobilità dei lavoratori da un contesto all’altro o persino da un luogo all’altro.
La mobilità è un termine usato disinvoltamente nel linguaggio politico-istituzionale, spesso come soluzione plausibile per risolvere i problemi non solo del mercato del lavoro, ma anche delle amministrazioni pubbliche, assumendo connotazioni diverse e confusive, tanto più che essa si manifesta attraverso strumenti diversi.
In generale, la mobilità costituisce una caratteristica della flessibilità del lavoro, al fine di renderlo più adatto alle mutevoli esigenze - ormai globali - dell’impresa.
Processi a sostegno della mobilità sono stati avviati dal 2008 con specifiche Raccomandazioni del Parlamento Europeo e del Consiglio e sono in fase di sviluppo in tutti i paesi europei (22 paesi membri dell’UE hanno già referenziato il proprio sistema nazionale all’EQF, Italia compresa*) a parole con l’obiettivo di creare le condizioni per migliorare l’occupabilità e la mobilità dei lavoratori.
Ora, in tale contesto, dove l’agenda europea appare asseritamente orientata a valorizzare l’individuo, attraverso una semplificazione delle modalità di riconoscimento e valorizzazione di titoli, qualificazioni e/o di esperienze (anche non formalmente certificate), si inserisce una riforma della Pubblica Amministrazione - datata giugno 2014 (D.L. 24 giugno 2014, n. 90) - che appare una combinazione di norme differenti che si mostrano a dir poco limitanti rispetto alla direzione che si starebbe seguendo nei diversi paesi.
Ad una prima lettura, nel citato Decreto Legge tra le “Misure urgenti per l’efficienza della P.A. e per il sostegno dell’occupazione” sembrano ampliate la possibilità e le modalità di utilizzo della mobilità volontaria, ma, entrando nel dettaglio, la procedura istituita ha un livello di complessità così elevato che l’applicabilità della norma sarà chiaramente circoscritta. Norma difficile che, però, mantiene invariati i nodi storicamente critici della mobilità, vale a dire il vincolo della corrispondenza della qualifica e l’assenso dell’amministrazione di appartenenza, ammessi solo in via sperimentale o rimandati a tabelle di equiparazione attese da quasi un decennio.
Inoltre, sempre nel medesimo testo di riforma della P.A., si prevedono i casi di mobilità “obbligatoria” e la possibilità di una ‘assegnazione di nuove mansioni’ ai dipendenti pubblici collocati in disponibilità, che in realtà è una “ricollocazione in una qualifica inferiore o in una posizione economica inferiore …”, quindi invece di valorizzare si chiede di demansionarsi, per potersi ricollocare.
Il sistema è più che mai il “centro” del provvedimento e la mobilità è considerata in termini meramente numerico/organizzativi. I lavoratori pubblici non sono espressione di competenze e attitudini, ma rimangono posizioni in pianta organica da spostare o ricollocare in altre piante organiche.
Ma, anche a voler comprendere la scelta di utilizzare la mobilità come strumento di miglioramento delle risorse disponibili, non si giustifica un processo basato sul demansionamento, sulla creazione di incertezza lavorativa, sullo sviluppo di sentimenti di ingiustizia morale per una collocazione/mobilità obbligata e basata su elementi di riorganizzazione della macchina amministrativa.
Senza una ricollocazione ragionata e ridisegnata sull’individuo, in base alle esperienze maturate, alle attitudini, al riconoscimento delle competenze possedute ed acquisite e quindi valorizzate, magari attraverso una equiparazione o un adeguamento tra profili e qualifiche appartenenti ad amministrazioni di comparti diversi, non si raggiungeranno mai, nel settore pubblico, obiettivi di rendimento concreto e funzionale ai servizi da erogare.
Se si decidesse di investire nel capitale umano del sistema pubblico e considerarlo finalmente un elemento partecipativo al miglioramento della competitività e della crescita sociale ed economica, si potrebbe concretamente parlare di “Riforma” della pubblica amministrazione. Se, viceversa, si continuano a replicare standard amministrativo-burocratici classici, non ci si può aspettare risultati migliori di quelli registrati negli ultimi decenni, che ben poco rinnovamento hanno portato.
* Il “Primo rapporto italiano di referenziazione delle qualificazioni al quadro europeo EQF” è consultabile presso il sito istituzionale dell’Isfol (www.isfol.it), nella sezione “dispositivi europei”.