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Domenica, 19 Mag 2024

Ottant’anni dopo Keynes, l’eutanasia del rentier, ossia l’orrido accumulatore di ricchezza finanziaria, può dirsi finalmente compiuta. O quasi.

Di sicuro si è compiuta per la versione affievolita del rentier, ossia il piccolo risparmiatore, che ormai non sa più dove mettere i soldi senza perderci, perché i tassi sono al lumicino o perché, per guadagnare qualcosa, si fa convincere a far lo spericolato e si brucia le penne.

Al contrario, il risparmiatore ricco ci ha persino guadagnato, sempre perché ha ragione il proverbio quando dice che piove sempre sul bagnato. Che tradotto in economichese si potrebbe dire che diversificando gli investimenti si diminuisce il rischio e quindi si aumentano i rendimenti medi attesi. Se non fosse che per diversificare servono risorse capaci di fare massa critica. Se uno ha 30-40 mila euro di ricchezza finanziaria cosa volete che diversifichi?

Conclusione: il vero rentier è più ricco di prima, alla faccia di Keynes, e il piccolo risparmiatore ne sta pagando il conto.

Togliere al risparmiatore per dare al rentier, in effetti, è l’esito perfettamente logico di una politica monetaria basata su tassi reali ormai azzerati, per non dire negativi.

Tale circostanza non si è mai verificata nella storia, che anzi esibisce tassi persino esagerati in alcuni momenti. Questa circostanza di per sé è meritevole di un approfondimento del quale, per nostra fortuna, si è occupata la Bce nella sua ultima Financial stability review, dove ho trovato due meravigliosi grafici: uno che raffigura l’andamento dei tassi nominali dal 1914 al 2014, e l’altro quello dei tassi reali nello stesso periodo per Stati Uniti, Giappone, Germania e Regno Unito.

I dati parlano chiaro. I tassi nominali mediani (non medi) statunitensi sui bond decennali nei cento anni considerati hanno quotato intorno al 6%, con un range interquartile che gravita fra il 4 e l’8% circa. A novembre 2014 erano poco sopra il 2%.

Quelli giapponesi mostrano un valore mediano intorno al 3,5% con un range fra poco meno del 2 e quasi il 6%. A novembre 2014 erano a un soffio dallo zero.

Quelli tedeschi hanno avuto un valore mediano e un range leggermente inferiori a quelli statunitensi, e anche i tassi nominali, oggi, sono più vicini a quelli giapponesi che a quelli Usa. Già, il bond Usa ha uno spread di circa 160 punti sul bund tedesco, ma di questo non si parla mai granché.

La Gran Bretagna fa storia a sé. Il suo valore mediano è intorno al 7% e il suo range fra il 5 e l’11%. Tuttavia il rendimento attuale del suo decennale è allineato con quello americano.

Il discorso cambia, e parecchio, se andiamo a vedere i tassi reali, ossia al netto dell’inflazione.

Dei quattro paesi considerati, l’unico che spunta qualche decimale di profitto reale è il decennale americano, che a novembre quota un rendimento reale di circa l’1%, a fronte di uno mediano, nei cento anni, vicino al 3 e un range fra l’1 e il 4.

Il decennale giapponese rende un tasso reale negativo del 3%, a fronte di una mediana e di un range simili a quelli americani. Germania e UK stanno entrambe sulla linea dello zero, o qualcosina in più, a fronte di mediane del 3,5% per la Germania e di circa il 3% per la Gran Bretagna.

Rendimenti “estremi”, come commenta la Bce, che sottolinea come tale circostanza si sia verificata per una serie di concause, non ultimo il rating.

Al contempo però i rendimenti reali dei paesi con rating basso, tipo la Spagna o l’Italia, sono vicini a quelli della mediana secolare. Il che suona sicuramente come una beffa, visto che di sicuro c’avrebbe fatto comodo pagare qualche punto di Pil in meno di tassi sul debito, pubblico e privato.

Il problema, osserva la Bce, è che “mentre i tassi di interesse su queste obbligazioni sovrane rimangono ai loro minimi storici, il livello debito/Pil dei governi rimane elevato e c’è un rischio di potenziale e acuto aggiustamento una volta che le banche centrali usciranno dai programmi di quantitative easing”.

Per la cronaca: la Bce ci ricorda gentilmente che la BoE (Bank of England) ha il 27% dei bond pubblici domestici, la BoJ (Bank of Japan) il 24% e la Fed il 15%. Ovviamente per apprezzare tali percentuali, bisogna pesarle sulla quantità totale di bond in circolazione.

“Alcune giravolte recenti del mercato – osserva inoltre la Bce – indicano che tale potenziale aggiustamento può essere amplificato da crisi di liquidità che assottiglino il mercato secondario”.

Tutto ciò si aggravando se uno considera, come fa la Bce, che “un brusco aggiustamento del premio a termine sui titoli Usa è probabile” e che è “una causa di preoccupazione per l’eurozona”, peraltro svantaggiata anche dall’inflazione declinante che fa barcollare i paesi più indebitati. Ossia tutti.

Mentre il mondo danza su questa polveriera, il povero risparmiatore, oltre a scoprire cosa fare con il proprio gruzzoletto, dovrebbe anche ricordare che il risparmio ha molte declinazioni, a cominciare da quello previdenziale o assicurativo, che dipendono sostanzialmente dai tassi di interesse. Tassi bassi così a lungo terremotano al ribasso non soltanto i rendimenti delle obbligazioni presenti, ma anche quelli degli investimenti futuri.

Quindi come dovrebbe reagire il piccolo risparmiatore a tale politica sconsiderata?

La scelta è molto semplice: diventare un risparmiatore ricco.

O smettere di esserlo.

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