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Giovedì, 04 Lug 2024

altSempre perché è utile ricordare che una medaglia ha due facce, quando vi dicono che il calo del petrolio fa bene all’economia, ricordatevi che fa male all’altra metà del cielo, ossia alla finanza.

Se questa evidenza passa pressoché inosservata è perché il mondo ha bisogno di buone notizie, capaci di incrementare il buon umore, ossia l’unico antidoto alla crescente quantità di rischio che dobbiamo caricarci sulle spalle per scrollarci la pigrizia di dosso.

Ma il fatto che non se ne parli, col pretesto che è roba da azzeccagarbugli dell’informazione, non impedisce che tali malanni stiano covando sotto le nostre preziosissime terga. Solo che per conoscerli bisogna armarsi di pazienza e leggere roba noiosa come quella che pubblica il FMI nel suo ultimo Global financial stability report, dove un box titola proprio su “The Oil Price Fallout—Spillovers and Implications for the Financial Sector”.

Qui leggo ciò che a me pareva già evidente: ossia che non esistono pasti gratis nell’economia internazionale e tantomeno nella finanza internazionale. Ciò che fa bene ai paesi avanzati, che devono sborsare meno dollari per comprare il petrolio e, quindi, possono contare su un inaspettato miglioramento dei propri redditi, fa male a quei paesi che producono il petrolio.

Questo sul canale economico. Su quello finanziario, le complicazioni sono ancora maggiori.

Il primo esito che impensierisce il Fmi è l’amplificazione del rischio di credito per quei paesi e quelle compagnie che basano sul petrolio gli incassi energetici. In pratica costoro, molti dei quali notevolmente indebitati, hanno subìto un riprezzamento del loro merito di credito da parte degli investitori. Questiultimi, chiedono loro più soldi per poi prestargliene a loro volta.

Per darvi un’idea di cosa ciò abbia comportato in pratica, basta ricordare che dall’estate 2014 gli spread sui bond denominati in dollari emessi dai paesi emergenti che hanno a che fare col petrolio sono quasi raddoppiati, il che rende assai più problematico per questi paesi gestire i loro debiti.

Chi come noi è fresco di spread alle stelle sa bene cosa ciò voglia dire.

Le valute di questi paesi, inoltre, hanno sperimentato pressioni al ribasso, complicando anche la gestione domestica dell’inflazione le cui aspettative, in diversi paesi emergenti, “risultano non bene ancorate”.

Il quadro peggiora se dai paesi sovrani si guarda la situazione delle corporation che agiscono nel settore energia, che hanno notevolmente aumentato il loro livello di indebitamento nella fase del boom dei prezzi delle commodity. “Storicamente – nota perfido il Fmi – i default nel settore corporate nel settore energia si sono verificati nella fase dei prezzi calanti”. E sarebbe strano il contrario, aggiungo.

Agli amanti dei numeri farà piacere sapere che il valore nozionale dei debiti del settore energetico, a livello globale, pesa circa 3 trilioni di dollari, 247 miliardi dei quali sono attribuibili al mercato americano delle obbligazioni ad alto rendimento, che è un modo elegante per dire che sono ad alto rischio.

Solo nel 2014, l’emissione di prestiti sindacati nel settore dell’oil e del gas ha raggiunto i 450 miliardi di dollari, pari al doppio del precedente picco del 2007, con una percentuale di prestiti leveraged, ossia ad alto rendimento perché altamente rischiosi,  passata dal 17% del 2006 al 45% del 2014.

Risulta, peraltro, che la maggior parte della banche considerate sistemicamente globali (GSIs) abbia nei suoi libri una quota che oscilla dal 2 al 4% di esposizione verso il settore energetico. “Un prolungato ribasso dei prezzi petroliferi, avverte il Fmi – può rendere complicata la capacità di servire il debito” e in ultima analisi la loro operatività.

Il costo del petrolio insomma impatta su chi ha finanziato i petrolieri.

A questo canale di potenziale instabilità, se ne aggiungono altri.

Le riserve dei paesi esportatori sono aumentate di 1,1 trilioni, quintuplicandosi, nell’ultimo decennio. Questa montagna di carta è diventata una componente rilevante della liquidità globale. Ossia una delle fonti alle quali si abbeverano per il loro funding il settore bancario globale e i mercati dei capitali.

Per darvene un’idea, i depositi bancari dei paesi esportatori, secondo i dati della BIS, sono più che raddoppiati dal 2004 al 2014, arrivando a 974 miliardi di dollari, e adesso detengono asset finanziari per oltre 2 trilioni di dollari, suddivisi fra equity (1,3 trilioni) Treasuries (580 miliardi), credito (230 miliardi) e agency debt (21 miliardi).

Bene, nel 2014 le riserve dei paesi esportatori sono diminuite di 88 miliardi e questo trend sembra confermato per il 2015. Ciò, osserva il Fmi, pure se appartiene al normale processo di riequilibrio in corso, può creare problemi. Specie considerando che il settore Oil e, in generale, delle commodity ha da tempo attirato per i suoi rendimenti l’attenzione dei cosiddetti investitori istituzionali, quindi, ad esempio i fondi pensioni, che si stima abbiano in pancia il 45% dei future sul WTI, ossia il triplo di quanti ne detenevano nel 1990.

Quindi il costo del petrolio impatta anche su chi gestisce, per dire, i soldi dei futuri pensionati.

Sempre contenti che il petrolio cali?

 

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