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Venerdì, 17 Mag 2024

universita' crollo iscrizioniPubblicata, a cura di Gianfranco Viesti, dall’Istituto di ricerca su economia e società in Sicilia (Res), una ponderosa “Indagine sulle Università del Nord e del Sud” fa il punto sulla situazione del nostro sistema di alta formazione.

Il quadro che ne emerge, anche in relazione alle prospettive future, è a dir poco sconsolante, sotto almeno tre aspetti rilevanti: la dimensione dell’università italiana; la sua articolazione territoriale; la sua qualità.

Sotto il primo aspetto, ossia quello dell’ampiezza del sistema universitario, viene sottolineato che questo si è ridotto di almeno un quinto, diventando così  notevolmente più piccolo. Infatti, gli immatricolati sono diminuiti del 20%, essendo venute a mancare oltre 66mila unità; i docenti da 63mila che erano sono oggi 52mila, con una perdita del 17%; il personale tecnico-amministrativo è sceso da 72mila unità a 59mila, registrando così una contrazione del 18%; nette le riduzioni anche dei corsi di studio e del fondo di finanziamento, diminuiti i primi del 18% (sono ora 4628 da 5634 che erano) e il secondo sceso, in termini reali, del 22,5%.

Alla stregua di tali dati, l’Italia, già fanalino di coda fra gli stati dell’Unione europea per numero di laureati, non potrà  che continuare a conservare questa poco edificante posizione, venendo superata anche dalla Turchia. Una prospettiva, come ognun vede, tutt’altro che virtuosa: sia sotto il profilo economico, dato che la competitività con i paesi più avanzati dipende in gran parte dalla forza di lavoro ad alta qualifica (vale a dire, dalla forte presenza di laureati nel ciclo produttivo); sia sotto il profilo civile, considerato che il livello di istruzione tende a determinare una “partecipazione politica più consapevole, una vita sociale e culturale più ricca, una migliore cura della salute”, oltre a favorire la mobilità sociale, già nel nostro paese piuttosto limitata. La riduzione degli accessi all’università, che i dati sembrano mostrare più forte per chi proviene dai ceti più deboli, rischia, invece, di ridurla ulteriormente.

Quanto al secondo aspetto sopra richiamato, cioè quello dell’articolazione territoriale del sistema universitario, l’Indagine Res evidenzia come il nostro paese stia pesantemente disinvestendo in questo settore, con particolare intensità nelle regioni più deboli, cioè negli atenei del Centro-Sud, con punte drammatiche nelle Isole, oltre che per alcune sedi geograficamente periferiche del Nord. Tutte aree, queste, nelle quali l’università potrebbe svolgere un ruolo prezioso per il progresso economico e civile.

Si va disegnando così un sistema formativo sempre più differenziato fra sedi più o meno dotate (di fondi, docenti, studenti e relazioni con l’esterno), con le prime fortemente concentrate in alcune aree del Nord del paese. Insomma, poche eccellenze in un quadro complessivo di mediocrità, con le sedi “povere” destinate a un declino progressivo e sempre più rapido e dove si eroga una didattica di base, con meno insegnamento avanzato (corsi magistrali e dottorati) e meno attività di ricerca.

In altre parole, la serie A e la serie B degli atenei, con l’aggravante che la prima è tutta concentrata in un triangolo di 200 chilometri di lato con vertici Milano, Bologna e Venezia (e qualche estensione territoriale a Torino, Trento, Udine) e la serie B, che copre il resto del paese. Si dimentica così che l’interazione, anche su base locale, con un sistema della ricerca e dell’università di qualità, rappresenta ovunque un fondamentale fattore competitivo dei territori, sicché bisognerebbe rafforzare in modo particolare le iniziative di formazione avanzata e di ricerca anche nei territori più deboli, contribuendo a creare le condizioni per il loro sviluppo. Perché la competitività di un paese è sempre la somma di quella di tutti i suoi territori.

Il terzo ed ultimo profilo di criticità riguarda la qualità del sistema e delle sue componenti, tanto più rilevante in un periodo di esaltazione della “meritocrazia”. Se qualità del sistema significa svolgere contemporaneamente e sempre meglio le funzioni didattiche, di ricerca e di interazione con l’esterno, l’Indagine Res rileva che il ridisegno dell’offerta didattica ha seguito modalità casuali, palesando una capacità strategica relativamente modesta degli atenei, salvo sporadiche iniziative maturate in singole sedi e preordinate più a competere per attrarre studenti che a collaborare, senza scenari progettuali definiti.

Il rischio, tutt’altro che remoto, è che l’attività didattica diventi sempre meno importante, dato che le sorti degli atenei sembrano sempre più dipendere dalla capacità di pubblicare articoli scientifici, ormai l’unico mezzo per acquisire risorse finanziarie sempre più necessarie, possibilmente senza coinvolgere colleghi di altre università ma nella spasmodica ricerca di coautori stranieri (con l’impiego della lingua inglese), indifferenti alla circostanza che questo comporta il deperimento di riviste ed editori, soprattutto il prosciugarsi di tradizioni di riflessione e di ricerca che non rientrano nei parametri dell’Anvur.

In conclusione, crediamo si tratti di rilievi su cui riflettere se si vuole, come si dovrebbe, ridare slancio a un sistema, come l’attuale, “con dinamiche complessive di ripiegamento; con crescenti squilibri, anche su base territoriale, al suo interno; con esigenze di continuo miglioramento, in particolare in alcune aree”.

Ne va del futuro non solo dell’università ma di tutto il nostro paese.

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