Se c’è un posto in cui non è difficile mangiare “nella storia”, cioè in ristoranti allocati in mura plurisecolari, quello è Ascoli Piceno. Ma al Comune devono aver intuito che c’è gente alla quale tutto questo può non bastare, poiché preferirebbero una convivialità all’ombra di tele d’autore, meglio se capolavori. Detto e fatto. Sulla scia di quanto già avvenuto alla Reggia di Caserta, anche nel capoluogo piceno è stato varato un regolamento che apre ai banchetti la Pinacoteca comunale, che ospita, fra l’altro, quadri di Tiziano, Guido Reni e Luca Giordano.
Il Codice dei beni culturali vieta gli usi “incompatibili” con il carattere storico-artistico dei beni tutelati, ma sembra che l’obiettivo di far cassa sia un’esigenza più sentita rispetto alla difesa di un patrimonio tanto fragile che è già difficile preservarlo nello stato in cui si trova.
Al Comune, naturalmente, dicono che quel patrimonio pericoli non ne corre e, quindi, un uso non esclude l’altro. Di certo, se l’esigenza di far cassa è sentita e perseguita, non si può dire che sia da tutti condivisa.
Il 19 gennaio scorso, infatti, sempre in Ascoli, a piazza Arringo, proprio davanti alla Pinacoteca, c’è stata una manifestazione popolare di protesta contro la locale “valorizzazione” del patrimonio culturale in stile Franceschini, chiaramente ritenuta non adatta a sensibilizzare il pubblico verso le bellezze del posto. Anima della contestazione è stato il professor Dante Fazzini, che ha invitato i suoi concittadini a “partecipare civilmente” il proprio dissenso, portando una candelina e qualcosa da mangiare insieme”. Un’agape en plein air, senza quadri ma con le antiche mura della piazza a far da contorno.
Stanchi delle cene in Pinacoteca (finora pare almeno due: la prima, a novembre, di un’imprenditrice ascolana; la seconda, a dicembre, organizzata dal Soroptimist, ma questa ampiamente commentata sui media), i manifestanti hanno ribadito che quel luogo non si presta a questo tipo di eventi, come puntualmente precisato - ci hanno tenuto a sottolineare - dal Manuale di conservazione integrata dei beni culturali e ambientali dell’Università di Napoli, dove si dice che le opere d’arte non possono essere messe a repentaglio dall’uso di candele e fumi in ambienti spesso climatizzati, per impedire il deterioramento delle opere stesse.
La Pinacoteca, insomma, va usata solo per il suo scopo naturale e la città merita “dignità e rispetto”. E proprio qui sta, forse, il punto più dolente di tutta questa faccenda. Nel senso che la manifestazione potrebbe essere solo la punta dell’iceberg, in quanto espressione di una diffusa insoddisfazione nei confronti della gestione comunale dei beni culturali, patrimonio dell’intera collettività, che non può essere messo a disposizione per qualsiasi uso da parte di chi, data la sua condizione economica, può permettersi - a pagamento - di farne un uso tanto esclusivo quanto inappropriato.
Sono in tanti, infatti, a rimproverare all’amministrazione, da un lato, l’occasione perduta (si spera non definitivamente) del Museo Tullio Pericoli, notissimo artista originario del posto e, dall’altro, la pessima condizione della pavimentazione di Piazza del Popolo, una delle più belle d’Italia, dove, come dicono i contadini del mercato, “con tutte le buche che ci stanno puoi piantare le patate pure senza scavare”.
Se questo è l’idem sentire della gente, la battaglia per la difesa dei beni culturali potrebbe essere solo all’inizio.