A guardare le cronache dell’allarme sanitario che squilla a più non posso da Pechino, emerge con chiarezza un’evidenza: una settimana di paura del coronavirus ha fatto più danni alla Cina di un anno e passa di guerra commerciale, al termine della quale la Cina ha pure aumentato i suoi attivi commerciali.
Soprattutto il virus rischia di isolare la Cina – già in autoquarantena da giorni – e così facendo mette in crisi i processi della globalizzazione, evidentemente assai più sensibile alla paura delle malattie che alle intemerate dei politici.
Alcuni esempi tratti dalle cronache aiuteranno a mettere a fuoco. Lasciamo da parte la reazione – prevedibile – dei mercati finanziari, come sempre ostaggio dei saliscendi umorali degli operatori. A fare la differenza è quella che con qualche semplificazione viene definita economia reale. I viaggi all’estero, ad esempio. Non bastassero le indicazioni delle autorità cinesi a muoversi meno possibile – che arrivano fino alla sospensione di trasporti in alcune aree sensibili – è arrivata la notizia che Trump stava pensando di sospendere i voli per la Cina, insieme a quella che la British Airways lo aveva già deciso. Stessa cosa ha fatto la compagnia indonesiana Lion Air e anche la Lufthansa ha tagliato i voli.
A un certo punto è anche arrivata la notizia che sono state annullate le prove di coppa del mondo di sci previste in Cina in febbraio. Un altro pezzo della Cina “internazionale” che viene meno. Per non parlare della psicosi ormai, quella sì, pandemica. L’Australia, dove erano in trasferta, ha chiuso in quarantena in albergo la nazionale cinese femminile di calcio, “colpevole” di esser passata da Wuhan alcuni giorni prima. Questo mentre il Mozambico bloccava il rilascio di visti ai cinesi. Il Kazakhstan e la Mongolia hanno chiuso le frontiere con la Cina. Non stupisce che ormai ovunque i cinesi vengano guardati con apprensione, se non con sospetto. Lo stesso giorno la Toyota ha annunciato la sospensione della produzione fino al prossimo 9 febbraio, mentre Stairbucks chiudeva temporaneamente la metà dei suoi punti vendita in Cina e Ikea tutti i suoi store.
Ed è proprio sull’avverbio “temporaneamente” che si misurerà la gravità della crisi. Quanto più a lungo durerà la paura, tanto più gravi saranno gli effetti sull’internazionalizzazione, nella quale la Cina gioca un ruolo di straordinaria importanza. Il mondo che mette al bando ciò che arriva dalla Cina è lo stesso mondo che sta segando l’albero su cui è seduto. Per dirla con le parole del presidente della Fed Jerome Powell, “il virus crea incertezze per la crescita dell’economia mondiale”.
La storia, peraltro, non incoraggia all’ottimismo. E’già successo una volta che un’epidemia partita dalla Cina abbia distrutto una globalizzazione. Parliamo dalla peste nera del XIV secolo, arrivata in poche settimane in Europa proprio in ragione dell’intensa attività di scambi internazionale, che ieri come oggi, legava l’Oriente all’Occidente. Certo, il mondo è assai meglio attrezzato di allora contro le pandemie. Ma al tempo stesso lo sono anche i patogeni che, come noi, prendono gli aerei. Nel dubbio, la globalizzazione si ritrae. E questo è il punto saliente.
giornalista socioeconomico - Twitter @maitre_a_panZer