di Roberto Tomei
Globalizzazione è termine dai molti significati. Ai nostri fini, tramontato il rapporto con la lingua sorella d'Oltralpe, identifica l'irruzione dell'inglese nella nostra vita quotidiana, a tutti i livelli.
Padroneggiarlo, dopo l'italiano, è importante, anzi necessario per muoversi fuori dai confini nazionali. Dentro questi, invece, non è poi essenziale usarlo, per di più spesso a sproposito. Viceversa, in Italia, si è ormai instaurata l'egemonia dell'inglese (da intendere come comprensivo dell'americano), un esito voluto dalle stesse istituzioni, non solo nazionali ma persino locali, visto l'impazzare per ogni dove di insegne e cartelli bilingui o eterolingui.
Rammaricandosi per il declino della nostra lingua, Guido Ceronetti ha evidenziato come si vada diffondendo tra la gente una sorta di monolinguismo anglofono, un meticciato di inglese italianato e italiano angliato. In certi ambienti, come tra i burocrati, l'effetto è devastante, con punte tragicomiche.
Basta affacciarsi a un corso di formazione/aggiornamento per essere sommersi di termini che, quando se ne chiede il significato, nemmeno un inglese sa cosa rispondere. Senza parlare poi delle più bieche volgarizzazioni (erasa per dire cancella), frequenti tra i livelli impiegatizi meno elevati.
Ma se l'"anglo-trasteverino" è fenomeno dai contorni circoscritti, piuttosto estesa è la deriva in atto tra i giovani, che sembrano essersi dimessi in massa dall'italiano (si vedano all'uopo le pubblicazioni che raccolgono i messaggini telefonici: una realtà che lascia senza speranza).
Ma la globalizzazione sta segnando, al contempo, la rivincita dell'italiano, come ha dimostrato uno studio della Fondazione Rosselli. Un così diffuso interesse deriva da una serie di fattori: cultura, cucina, artigianato, arte di vivere e, naturalmente, il calcio (l'Italia, si sa, è tra le grandi potenze calcistiche).
Per numero di studenti che si iscrivono ai corsi di italiano siamo quinti, dopo l'inglese, lo spagnolo, il tedesco e il francese. Il merito va alla promozione culturale, in crescita costante (dai 309 eventi del 2001 si è passati ai 1534 del 2008), e agli istituti italiani di cultura, ben 89. Più della Spagna, ma molto meno della Gran Bretagna (194) e della Germania (149).
Certamente occorre ripensarne la dislocazione, in quanto ospitati in pochi paesi (61) rispetto a quelli inglesi (110) e a quelli tedeschi (91), ma soprattutto concentrati in Europa (54%, con una punta di 8 nella sola Germania).
L'italiano, infatti, ben potrebbe aspirare ad essere la terza lingua (dopo lo spagnolo e il portoghese) in certe aree geografiche come l'America centro-meridionale (in tutto il continente americano c'è soltanto il 21% degli istituti). Del tutto da sviluppare, poi, la presenza in altre zone del mondo (ad esempio, il blocco Asia-Oceania si attesta a un esiguo 10%).Ciò nonostante, si registra una fortissima attrazione per la nostra lingua e la nostra cultura in Giappone, con oltre cinquecentomila studenti.
Per meglio promuovere la diffusione dell'italiano nel mondo occorre soprattutto che si realizzi una sinergia tra le azioni delle diverse istituzioni che ci rappresentano nei vari continenti. Solo così si potranno avere risultati ancora più soddisfacenti.
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