Si parla spesso del declino della sinistra riferendosi, in particolar modo, alle vicende dei post comunisti che dettero vita al Pds, ai Ds e poi fondarono il Pd, insieme alla Margherita degli ex popolari post democristiani e ad altri di varia provenienza liberal democratica.Non si parla quasi mai di chi quel declino cercò di contrastare, facendo parimenti uno sforzo di elaborazione innovativa che sottraesse il Pds-Ds alla subalternità al neoliberismo e al pensiero unico via via dominante.
Storicamente è del tutto ovvia la responsabilità di chi ha diretto e indirizzato a quel declino. Primi fra tutti, anche se in contrasto tra loro, D’Alema, Veltroni, Fassino e tanti altri e altre. Ma questo non autorizza a sottacere di chi a quegli indirizzi politici suicidi si oppose dall’interno, con tutti i limiti, le ingenuità, gli errori e le illusioni che quella opposizione ebbe. Primo fra tutti, di non essere riusciti nell’obiettivo di rovesciare le politiche e cambiare i dirigenti che stavano dissipando un grande patrimonio storico ereditato.
Questa riflessione è riemersa nella mia mente oggi, perché tra le carte e gli opuscoli antichi ne ho ritrovato uno edito nel 2004 dalla “Sinistra Ds per il Socialismo” - l’ultima incarnazione della sinistra interna ai Ds – in cui si faceva una serie di proposte concrete che andavano in direzione opposta a quella seguita dal partito, guidato all’epoca da Fassino messo lì da D’Alema al Congresso del 2002.
Non era, però, solo questione di proposte, era un’altra ispirazione ideale e strategica quella che nella introduzione al testo avanzava Giorgio Mele. L’obiettivo, scriveva, era di spingere “i DS a un ripensamento e a un cambiamento rispetto alla linea oggi prevalente nel socialismo europeo, spesso subalterna al progetto liberista, e che ha portato in questi anni a pesanti e cocenti sconfitte nel nostro paese e in gran parte del continente”. Cosa che i dirigenti dei Ds si guardarono bene dal fare, marciando, anzi, a vele spiegate verso quel Pd a “vocazione minoritaria” che, di fallimento in fallimento, fu occupato da Renzi e dalle sue truppe di cui ancora oggi non riesce a liberarsi. Inoltre, Mele, allora senatore, metteva bene in chiaro una questione identitaria. “L’uso del sostantivo ‘socialismo’ vuol dire la collocazione e il riferimento […] a un variegato movimento che è stato parte fondamentale della storia del ‘900 ” che, però, non significava “il recupero di un vecchio recinto […] ma neppure copertura di politiche moderate o apertamente conservatrici”.
Sulla stessa lunghezza d’onda si muoveva un’altra minoranza: quella ecologista. Già presente nel Pds nel 2002 per impulso di Fulvia Bandoli, Edo Ronchi, Sergio Gentili e tanti altri compagni e compagne; quest’area politica, divenuta associazione “sinistra ecologista” grazie all’incontro fra un ecologismo di ispirazione marxista e una parte di ex verdi, forze impegnate nell’associazionismo ambientalista, esponenti del mondo della ricerca, del sindacato e dell’impresa, iscritti e non iscritti ai DS, cercò di contrastare la deriva dei Ds innovandone la cultura politica. I militanti ecologisti cercarono di immettere nel Dna della sinistra una visione dell’ecologia come strutturale e generale e non più settoriale. Sia nell’analisi della società e del mondo che nelle proposte dei Ds. Rammento il nobile tentativo di una legge che prevedesse in tema di costi economici anche quelli ambientali.
“L’ecologia politica di sinistra – scrivevano quei compagni - nasce dalla piena consapevolezza che la contraddizione sociale e quella ecologica sono due facce della stessa medaglia. Esse vanno insieme. La via dello sviluppo sostenibile è quella su cui passa il superamento della povertà nei paesi in via di sviluppo, l’affermazione di maggiori diritti e sicurezze sociali, rapporti sociali più liberi perché egualitari e democratici”. Tutto il contrario del neoliberismo allora imperante.
Ma gli ecologisti Ds non si limitarono a questo, introdussero anche un’innovazione organizzativa: “Sinistra ecologista” divenne un’associazione autonoma che strinse un patto federativo con i Ds. Era il tentativo di indicare la necessità e possibilità di una nuova forma partito, di tipo federativo, che stabiliva un ponte con la società civile e con i movimenti e le sensibilità nuove che in essa si organizzavano. Un’apertura, insomma, e non a chiacchiere. Poi tutto si spense con l’arrivo del Pd.
Quando si parla del declino della sinistra post comunista, ricordiamoci anche di coloro che tentarono di contrastarla dall’interno e dall’esterno. Furono sconfitti, ma la validità delle loro idee e della loro ispirazione riemerge oggi con forza nuova.
Aldo Pirone
Coautore del libro "Roma ‘43-44 L’alba della resistenza"
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