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Mercoledì, 19 Nov 2025

Nulla come la storia della governance di Internet è prodiga di insegnamenti per chiunque voglia ascoltarli. Soprattutto rappresenta icasticamente cosa succede a un ordine globale, che si basa su un’egemonia non dichiarata ma sostanziale, quando l’egemone in carica, per le ragioni più svariate, cede il timone: l’unità si frammenta in pluralità. Per dirla con parole semplici: l’internazionalismo tende a recedere verso il nazionalismo.

Il fatto che ciò sia accaduto nel luogo principe dell’internazionalismo, ossia la rete, dovrebbe farci riflettere. La globalizzazione emergente, se mai riuscirà a imporsi, non sarà meno globale di quella che stiamo vivendo adesso. Sarà semplicemente basata su molti centri di potere. Un po’ com’era prima del 1914. Persino i centri di potere di allora somigliano a quelli che sgomitano oggi per emergere, con la vistosa eccezione della Cina, che però ricorda la Germania della Belle époque, così come gli Usa sembra interpretino la Gran Bretagna. Non state a fare gli scongiuri: la storia per fortuna, pur somigliandosi, non si ripete. Per questo è utile ricordarla.

Ma torniamo alla nostra storia. A cambiare le carte in tavola nel Grande Gioco di Internet, secondo quanto raccontano gli osservatori, fu un evento imprevisto che nulla aveva a che vedere direttamente con la questione, ma che fece emergere in tutta la sua drammatica chiarezza quale fosse la posta in gioco: il caso Snowden esploso nel 2013, un anno dopo la rottura che si era consumata in sede internazionale sulle regole delle telecomunicazioni.

La notizia, diffusa da Edward Snowden, che l’NSA statunitense spiava mezzo mondo investì come una valanga le compagnie internet Usa, accusate senza mezzi termini di collaborare con il governo per queste attività. Tutti sapevano – o quantomeno sospettavano – che il Re fosse nudo. Ma ben altro effetto provocò osservarlo direttamente.

L’ondata di discredito che investì gli Stati Uniti costrinse il governo a rivedere le regole del gioco. La gestione dell’Icann doveva essere globalizzata, e questo percorso iniziava dalla rinuncia al potere di amministrazione, che derivava dal Dipartimento del commercio, sulle sue attività.

Il primo segnale in tal senso fu dato nel 2013, quando a Montevideo i rappresentati di Icann e di altre organizzazioni a capo della governance della rete si dissero favorevoli alla condivisione della governance a livello globale. Questo processo durò un triennio, alla fine del quale il governò Usa completò la sua separazione da Icann, rinunciando così di fatto ad esercitare la sua egemonia sulla globalizzazione di Internet.

Ciò che seguì era facilmente prevedibile. La natura ha orrore del vuoto, insegnano i filosofi. E ancor più il potere ha orrore del vuoto politico, che infatti fu rapidamente riempito. Le forze, già ben sviluppate, come abbiamo visto, della globalizzazione emergente di Internet, trovarono facilmente lo spazio per esprimere la tendenza a “regionalizzare” il controllo della rete o quantomeno a far valere la loro posizione nelle questioni che ne riguardavano il futuro.

Il pretesto, ovviamente, fu quello della sicurezza. Il caso Snowden diede spazio a una serie di rivendicazioni che spinsero gli stati a “blindare” i propri territori dalle “incursioni” nemiche, ormai vissute anche come semplice dipendenza dalle tecnologie estere – si pensi alla guerra scatenata dal governo Usa a Huawei nel 2019 – ma anche per il pieno controllo delle informazioni che tramite internet arrivano al paese.

Da ciò derivò l’aumento delle norme con le quali i governi si riservano il diritto di bloccare il flusso internet quando lo ritengano opportuno , o che danno loro la possibilità di “filtrare” i contenuti. Uno dei sistemi più noto è il Great Firewall cinese, che in pratica “isola” il paese dal resto del mondo a discrezione del governo.

Ma la Grande Muraglia informatica cinese non è l’unico esempio di come un governo possa interferire con la rete. Gli osservatori raccontano che nei primi sei mesi del 2017 Google, Facebook e Twitter hanno ricevuto 114.169 richieste di rimozione di contenuti da 78 stati e 179.180 richieste di informazioni su utenti da altri 110 governi. Altri paesi tendono a “regionalizzare” le infrastrutture. Come ha fatto la Bank of India nel 2018, quando ha chiesto ai gestori internazionali di pagamenti di conservare su server localizzati in India le informazioni processate. Né sono mancate iniziative potenzialmente distruttive sull’unità della rete globale, come la proposta cinese chiamata DNS extension for autonomous Internet, che si proponeva di regionalizzare i domini di primo livello (i TLD), togliendo questo compito all’Icann. La proposta, che avrebbe significato frammentare l’unitarietà dell’infrastruttura, non è stata accettata, ma il fatto che ci abbiano provato la dice lunga.

“Nazionalizzare” ciò che nasce internazionale è il sogno dei governi, specie di quelli che hanno capito che lo shift of power ormai non si esprime più sul territorio, ma nella cloud. La Cina l’ha capito benissimo, ed è per questo che sta lavorando molto profondamente sul web. Non solo tecnicamente.

Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
Twitter @maitre_a_panZer
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