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Mercoledì, 27 Set 2023

Ce ne siamo accorti tutti, e ce ne accorgiamo ogni giorno: siamo diventati più poveri. E non si tratta solo del nostro potere d’acquisto, che viene sempre messo a dura prova dal carrello della spesa. Ma dello stock di risparmi, per chi li aveva, che si liquefà alquanto rapidamente. Nel tempo, vale a dire, che cessa la spinta inerziale dei consumi, che la nostra psicologia si aggancia ancora ai vecchi prezzi, si prende consapevolezza di quanto siano aumentati i prezzi.

Nel tempo che adeguiamo i nostri consumi al nuovo potere d’acquisto, il monte risparmi, peraltro cresciuto drammaticamente a causa delle restrizioni Covid – il tasso di risparmio era arrivato al 17,5 per cento nel 2020 e adesso sta intorno al 10 – , si trova improvvisamente depauperato. E neanche di poco.

Fra il 2021 e il 2022, “nel complesso l’alta inflazione e il forte calo dei prezzi delle attività hanno determinato una riduzione della ricchezza finanziaria netta delle famiglie, a prezzi costanti, del 14,4 per cento”. Parliamo di 693 miliardi di euro. Non tutto questo calo è dipeso dall’inflazione, ovviamente, ma il contributo è indubitabile.

Ovviamente il dato cela molte situazione diverse. Così come il carovita ha eroso le attività, altrettanto ha fatto con le passività. Quindi chi aveva debiti ha visto diminuire il loro valore reale. Ma la situazione è ancora differente se spostiamo l’attenzione dalla famiglie alle imprese.

Queste ultime hanno visto diminuire l’avanzo finanziario, in conseguenza del deciso aumento degli investimenti fissi lordi osservato nel 2022 che ha superato quello dei profitti. E tuttavia per le imprese l’inflazione ha sortito un effetto opposto rispetto a quello osservato nelle famiglie. “Il forte rialzo dei prezzi al consumo si è riflesso in una contrazione del valore reale delle passività maggiore di quella delle attività finanziarie più esposte all’inflazione, per un ammontare pari al 6,3 per cento del valore aggiunto. Ciò ha determinato, insieme con l’avanzo finanziario, un aumento della ricchezza finanziaria netta delle imprese, a prezzi costanti, del 13,3 per cento (332 miliardi)”.

Traduzione: le imprese hanno goduto di un vantaggio perché i loro debiti, grazie all’inflazione, si sono erosi più dei loro crediti (6,3 per cento del valore aggiunto). Ciò, sommandosi all’avanzo finanziario, ha generato un notevole aumento della ricchezza finanziaria netta.

E’ una vecchia storia, a ben vedere. L’inflazione premia sempre chi fissa i prezzi, e tende a gonfiare i profitti delle imprese. Sappiamo già chi paga.

Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del recente libro “La storia della ricchezza”
Twitter @maitre_a_panZer
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