Le ultime previsioni contenute nell’outlook di giugno dell’Ocse confermano il rallentamento in corso dell’economia internazionale, ovviamente con diversi livelli di intensità. Una mezza cattiva notizia che però ne contiene mezza buona: l’economia internazionale sembra abbia iniziato il suo percorso di guarigione dalla malattia post pandemica della quale la febbre inflazionistica è il sintomo più evidente.
Rallentiamo, quindi, ma come dice il proverbio andando piano abbiamo la possibilità di andare più lontano. Sempre che, ovviamente, si sappia dove si voglia arrivare. Perché la questione economica, che guarda solo ai numeri, non può più scantonare da quella più squisitamente politica che consiste nel fissare un obiettivo di lungo periodo che dia un significato alla crescita economica. Crescere per crescere, insomma, non basta più. Lo dimostra il malcontento osservato prima ancora che la crescita subisse l’infarto della pandemia e poi della guerra. Serve una crescita per fare qualcosa.
Su cosa sia questo qualcosa, attendiamo di scoprirlo. L’Ocse di mestiere guarda i numeri dell’economia, e dobbiamo accontentarci di sapere che, sempre secondo le ultime previsioni, ossia la versione mitigata dell’incertezza, la crescita globale del 2023 scenderà al 2,7 per cento, dal 3,3 previsto pochi mesi, con la previsione di un mini rimbalzo nel 2024, quando dovrebbe arrivare al 2,9 per cento. Un andamento lento – siamo ancora lontani dal livello del 2019 – ma comunque non irrilevante.
Questa lentezza è uno dei driver del rallentamento anche dell’inflazione, che si vede in calo al 6,6 per cento nel 2023, a fronte del 9,4 per cento del 2022, e ancora al 4,3 per cento l’anno prossimo. Le restrizioni monetarie fanno il loro lavoro, a quanto pare. E anche il rallentare della crescita è una delle conseguenze.
Tutto si tiene insomma. Dobbiamo rallentare, sperando di non fermarci, per rimettere a posto la nostra costituzione economica. E in questo recuperare la salute poco importa se le varie produzioni, la domanda, i risparmi, seguiranno la tendenza al ribasso. Chi va piano, oltre ad andare lontano, va anche sano, sempre per ricordare il proverbio.
Una volta perciò che togliamo dal tavolo la preoccupazione per la crescita, rimane quella per la fragilità del contesto. La guerra non aiuta a delineare un orizzonte chiaro, e complica anche la formulazione di obiettivi di medio periodo diversi dalla mera sopravvivenza.
Il problema che ci si pone di fronte è che questa crescita modesta deve sostenere debiti arrivati a livelli storici, ma soprattutto deve sostenere la nostra capacità di immaginare un futuro diverso – e possibilmente migliore – del passato recente.
Viviamo in una società che, volenti o nolenti, ha dato al benessere economico la priorità – solo di recente si collega alla sua sostenibilità ambientale – e ciò implica che in assenza di sviluppo sostenuto diveniamo incapaci di realizzare le promesse che i governi hanno fatto alle loro popolazioni. Per questo leggere i rapporti degli osservatori internazionali, delle banche centrali e monitorare le politiche dei governi è così importante.
A tal proposito, vale la pena riportare uno dei tanti suggerimenti che l’organizzazione parigina rivolge ai governanti. Ossia l’invito a dare priorità agli investimenti pubblici che favoriscono la transizione ecologica, l’offerta di lavoro e le qualificazioni professionali.
Sottotitolo: dobbiamo diventare migliori per crescere di più. Rimane, però, inevasa la domanda: per fare cosa?
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del recente libro “La storia della ricchezza”
Twitter @maitre_a_panZer