La buona notizia ne contiene una cattiva, se almeno uno crede – e molti iniziano a dubitarne – che il commercio faccia bene alle relazioni internazionali. La notizia buona è che il primo regge, anche se fra diversi alti e bassi generati dalle seconde. Gli scambi sono riusciti a ripartire dopo il tremendo shock del 2008, che tutti noi abbiamo dimenticato, ma i mercati e i governi no. E lo dimostra la cattiva notizia, ossia che il tasso di crescita del commercio è sempre stato inferiore a quello del pil nei quindici anni che sono trascorsi da allora.
Si potrebbe ricordare che nel frattempo il clima delle relazioni internazionali è peggiorato, e che ci sono stati anche un paio di shock non prevedibili e per giunta gravi. Pandemia e guerre notoriamente non giovano ai mercanti. Ma, al di là di tutto questo, si tende a dimenticare che molti dei nostri tormenti hanno una radice lontana, che oggi genera la fioritura di tensioni internazionali che accompagnano le nostre cronache.
Vi offro giusto un piccolo pro memoria, per ricordare cosa sia successo nel 2008. Dopo la crisi, la somma di import ed export – una misura della globalizzazione – che superava il 60%, è scesa a sfiorare il 50%. Un movimento simile a quello osservato nel biennio della pandemia, con la differenza che la quota di commercio sul pil non ha più raggiunto il livello pre 2008 e per giunta ha avuto un andamento declinante prima della pandemia.
Poiché degli anni più vicini a oggi dovremmo avere memoria migliore, vale la pena spendere qualche riga per ricordare quale fu la reazione del mondo dal crash subprime.
In sostanza, il mondo – tutto il mondo, a cominciare da quei BRICS che più tardi si proporranno come alfieri della globalizzazione – chiuse le frontiere. L’aumento di restrizioni agli scambi, nelle loro varie declinazioni, fu repentino e profondo.
Quell’onda lunga si è diffusa fino ai nostri giorni, e pure se con qualche mitigazione, continua a svolgere i suoi effetti. Le discussioni oziose di oggi sulla slowbalisation sono la conseguenza dei traumi irrisolti seguiti a quella crisi, dalla quale germinarono anche i vari populismi.
Lo stato dell’arte si può indovinare osservando adesso il grafico in basso, con Usa e Cina sempre più distanti e la novità della Germania, che si è distanziata dalla Cina come mai in tempi recenti.
Che significa tutto questo? Che il commercio per adesso regge, ma non bisogna aspettarsi troppo. I venti di guerra, la crescita lenta, le antiche diffidenze: tutto congiura per generare quei “costi economici considerevoli in termini di riduzione degli scambi e del benessere, nonché un innalzamento dei prezzi”, di cui parla la Bce nel suo ultimo bollettino in un approfondimento dedicato a questo tema.
La globalizzazione può anche non essere più di moda. Questo non vuol dire che non proseguirà, in un modo o in un altro. Vuole dire solo che avrà un costo maggiore per i consumatori che, ricordiamolo sempre, sono anche produttori o lavoratori. E non solo un costo economico, ovviamente.
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del libro “La storia della ricchezza”
Twitter @maitre_a_panZer