Sempre perché fra il dire e il fare c’è moltissimo mare, e in questo caso uno o due oceani, vale la pena leggere un interessante post pubblicato dalla Federal Reserve Bank (Fed) di St.Louis, che prova a calcolare quanto sia davvero praticabile il decoupling, il cosiddetto “disaccoppiamento”, fra l’economia cinese, grande factory globale fino a qualche tempo fa, e quella americana, che l’amministrazione Usa ha detto di voler praticare, giungendo persino a fare qualche passo.
Sennonché, ogni passo che si fa nella direzione di irrigidire una relazione porta con sé, insieme a chissà quanti benefici, costi altrettanto probabili, visto che la Cina è una fonte importante di prodotti a basso costo per l’economia manifatturiera Usa. Per cui una loro sostituzione con beni prodotti altrove, e quindi più costosi può finire col ripercuotersi sui consumatori statunitensi. Non è certo una novità: il costo delle restrizioni lo paga sempre il consumatore finale.
L’analisi si propone innanzitutto di misurare quanto siano vantaggiosi i prodotti cinesi rispetto a quelli di altri fornitori esteri. Gli economisti hanno monitorato 13.000 prodotti unici e i risultati sono quelli riepilogati nel grafico in alto: la Cina esprime quasi il 30% di questi prodotti e guida perciò ampiamente la classifica dei primi dieci fornitori considerati. Messico e Canada, che sono molto confinanti degli Usa, esprimono rispettivamente l’8 e il 10%. Segno evidente che la geografia, al tempo dei trasporti rapidi, non è più – o almeno non soltanto – una variabile determinante. E neanche la prossimità culturale, a quanto pare.
Questo implica che il “disaccoppiamento” potrebbe rivelarsi assai più complesso di quanto lasciano credere le intemerate dei politici. Con tempi più lunghi e costi più alti. Peraltro, non tutti i settori industriali statunitensi sono interessati al problema con la stessa intensità.
Come si può osservare da quest’altro grafico in basso, la supremazia cinese è evidente in alcuni sotto settori dell’abbigliamento, ma anche dei metalli e nei macchinari e non risparmia neanche quelli per l’elaborazione dei dati, i semiconduttori e i motori elettrici. Il vantaggio di prezzi dei produttori cinesi rispetto ad altri competitor è notevole. “Per circa il 45% delle categorie di prodotti che gli Usa importano dalla Cina – sottolinea la ricerca – la Cina offre valori unitari inferiori all’alternativa non cinese più economica”.
Ciò implica necessariamente che “gli sforzi per diversificare le catene di fornitura o ridurre la dipendenza dalle importazioni cinesi potrebbero portare a costi maggiori per una parte significativa dei beni importati negli Stati Uniti”. A buon intenditor…
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del libro “La storia della ricchezza”
coautore del libro “Il ritmo della libertà”
Twitter @maitre_a_panZ