Un paper molto interessante pubblicato dal Fondo Monetario ci ricorda una semplice evidenza che ha chiaro chiunque frequenti la sapienza dei proverbi: l’unione fa la forza. Poiché, però, non bastano i proverbi – purtroppo – a fare una buona politica, il Fmi è costretto a scrivere una trentina abbondante di pagine per mostrare come un approccio coordinato alle politiche industriali, al momento spezzettato fra i singoli aiuti di stato, peraltro in crescita, avrebbe effetti assai più interessanti per la fisionomia dell’economia europea.
Ciò per dire che una politica industriale di livello europeo avrebbe effetti assai più benefici delle singole politiche industriali. E qualora servisse una prova, potremmo osservare come la politica commerciale comune, che finora è l’unico vero successo dell’Ue insieme all’euro, ha consentito di avere il 60% dei commerci globali all’interno della regione. Un dato che, in un mondo che sogna sempre più di rinchiudersi in frontiere, dovrebbe farci riflettere.
Diciamolo diversamente. L’Europa scambia al suo interno oltre il 60% del proprio commercio. Stiamo parlando di un paese che fino a oggi ha basato la sua prosperità economica sulle esportazioni, a scapito della domanda interna, che è stata “addomesticata” con una politica di contenimento salariale per favorire la competitività di prezzo.
Quel mondo oggi sembra alle nostre spalle. Se l’Europa vuole avere un futuro deve usare la sua ricchezza per irrobustire le sue fondamenta, che non possono più essere solo quelle che consentono l’export, peraltro minacciato da diverse congiunture avverse, ma devono trovare al proprio interno le risorse di cui abbisognano. Abbiamo di recente ricordato il grande flusso di capitale che dall’Europa prende destinazioni estere per finanziare i consumi e gli investimenti altrui.
Una politica industriale comune, che rafforzi alcuni settori strategici è nientemeno che essenziale per rilanciare la dinamicità della regione, e quindi anche la sua capacità di esprimere una domanda interna che compensi le incertezze che appaiono sul fronte dell’export. “Concentrandosi sull’affrontare i fallimenti del mercato, ad esempio promuovendo l’innovazione in settori con ricadute di conoscenza (si pensi alla tecnologia verde) o consentendo il clustering regionale (si pensi alla Silicon Valley), può aumentare la produttività e i redditi”, scrive il Fmi.
Una volta capito che “le politiche industriali unilaterali sono una strategia perdente per la maggior parte dei paesi dell’UE, data la loro apertura al commercio”, non dovrebbe rimanere altro – e mai condizionale fu più d’obbligo – che affidarsi a una diversa capacità di integrazione. Le simulazioni lasciano pochi dubbi sui vantaggi che ne potrebbero derivare.
Il problema dell’Europa, tuttavia, come ormai risulta chiaro a tutti, non è tanto sapere cosa fare, ma come farlo. Le esortazioni a una maggiore integrazione ormai si sprecano, ma le iniziative concrete languono. Servirà tempo evidentemente. Peccato che sia la risorsa scarsa per eccellenza.
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del libro “La storia della ricchezza”
coautore del libro “Il ritmo della libertà”