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Venerdì, 05 Dic 2025

A volte, poche parole bastano ad esprimere verità profonde. E quando la Bis, in un approfondimento dedicato agli effetti dei dazi su commercio - contenuto nella sua relazione annuale, molto utile da leggere in giorni che si torna a parlare di dazi, scrive che “le critiche comuni al commercio globale sono spesso prive di fondamento” - dice tutto quello che c’è da sapere sul nostro tempo.

Ci è toccato in sorte di vivere un tempo in cui anziché affrontare le scelte difficili, si preferiscono quelle facili. Facili da capire, innanzitutto. E poi da compiere, ma con un rischio concreto di essere sbagliate. Perché le scelte difficili, quelle che nascono dall’analisi e dal ragionamento, hanno il difetto di richiedere tempo, per essere spiegate e applicate. E nel nostro tempo non c’è tempo abbastanza. Vogliamo soluzioni rapide, e possibilmente indolori per noi.

Nel merito della questione, vale la pena leggere quello che scrive la Bis per sfatare alcuni luoghi comuni, ben sapendo che tanto continueranno ad affliggerci. Il primo: non è vero che il commercio è cresciuto grazie a deficit commerciali crescenti. Al contrario: negli anni Duemila “l’entità dei deficit commerciali come quota del PIL mondiale è diminuita”. 

Secondo luogo comune, uno dei più perniciosi. Non è vero che il deficit commerciale fa diminuire l’occupazione nella manifattura. Ossia uno degli argomenti fondati del populismo contemporaneo. E’ vero infatti che il settore manifatturiero esprime oggi una quota minore sull’occupazione nelle economie avanzate, ma la stessa quota, in relazione al pil, è diminuita assai meno (grafico in alto). “Questo indica che parte del declino dei posti di lavoro manifatturieri è stato determinato dalla sostituzione tra capitale e lavoro, riflettendo una crescente automazione piuttosto che il commercio internazionale”, spiega la Bis. E’ assai più probabile che siano le esportazioni stagnanti, piuttosto che le importazioni crescenti, a determinare la debolezza del settore manifatturiero.

Terzo luogo comune. Non è vero che i deficit commerciali deprimono l’economia. Al contrario: “I deficit commerciali sono spesso associati a una forte crescita domestica, mentre un surplus commerciale può riflettere una debole domanda interna o inefficienze strutturali sottostanti”. Non so a voi, ma a me, italiano ed europeo, fischiano le orecchie.

Ma pure ammettendo che il deficit commerciale possa produrre effetti negativi, i dazi sono il peggiore dei rimedi per ridurli. E questo ci conduce al quarto luogo comune: “L’evidenza empirica mostra che, a differenza dei flussi commerciali lordi, i saldi commerciali rispondono a malapena all’imposizione o alla rimozione di dazi”.

Ciò in conseguenza del fatto che i saldi commerciali dipendono da dinamiche diverse da quelle elementari che può scatenare l’applicazione di una tariffa. “A meno che i dazi non possano in qualche modo aumentare il risparmio nazionale o sopprimere gli investimenti – il che potrebbe accadere temporaneamente se l’economia entra in recessione – faranno poco per alterare il saldo commerciale in modo strutturale”. Detto diversamente i dazi possono funzionare solo se incidono sul tessuto interno dell’economia, tanto profondamente da mandarla anche in recessione.

Inoltre, in un’economia globalizzata, vale giocoforza il principio della divisione del lavoro e quindi della specializzazione: “A meno che i dazi non siano fissati a livelli proibitivamente alti, è improbabile che superino le forze che spingono i paesi a specializzarsi nella produzione dei beni che sono più efficienti nel produrre”.

Non c’è bisogno di aggiungere molto altro. E’ sufficiente ricordare che “ci sono poche evidenze che i dazi stimolino la produzione nelle industrie domestiche protette”. “In realtà – aggiunge la Bis -, i dazi spesso deprimono l’attività economica, imponendo costi significativi sotto forma di prezzi più alti”. E questo in ragione del fatto che i grandi protagonisti delle importazioni non sono i beni finiti, ma quelli intermedi. che servono ad alimentare i processi interni di produzione. Quindi i dazi rischiano di impattare sul Pil peggiorandolo, piuttosto che stimolandolo.

Questa breve ricognizione ci porta alla conclusione della Banca. Se davvero si vogliono correggere gli squilibri commerciali, la strada da prendere non è daziare il mondo per distruggere il commercio, ma agire ad esempio, sulle politiche fiscali.

La Bis stima che la riduzione di un punto di deficit fiscale si associa a un restringimento del deficit commerciale fra lo 0,3 e lo 0,5%. Ciò in ragione del fatto che la politica fiscale ha effetti sull’equilibrio fra risparmio e investimenti. E bisogna anche ricordare che i paesi con attivi commerciali possono adottare al contrario politiche per stimolare la domanda interna, con riforme strutturali capaci di frenare l’impulso al risparmio che magari ha ragioni precauzionali. In paesi, ad esempio, che hanno un welfare poco efficiente.

Ciò per dire che ci sono molti modi difficili per ridurre gli squilibri commerciali. Modi che richiedono riforme strutturali e responsabilità fiscale, tutte caratteristiche che poco si conciliano con lo spirito del tempo e la consuetudine dei governi. La via dei dazi è praticamente inefficace per mitigare gli squilibri e rischia anche di fare grossi danni. Ma ha il pregio di essere facile da promuovere e da comunicare. E di questi tempi, quando pattiniamo veloci sopra superfici fragilissime, è tutto quello che ci possiamo permettere.

Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del libro “La storia della ricchezza”
coautore del libro “Il ritmo della libertà”
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