di Adriana Spera
La questione di genere, in questi tempi bui, è più che mai di attualità e ci pone interrogativi sulla nostra identità culturale. Quanto è garantita la parità di genere nel nostro paese nel 150° anniversario della sua nascita?
Ci sono almeno due elementi che avrebbero dovuto cambiare radicalmente la condizione della donna italiana: il diritto all'elettorato attivo e passivo (ossia a votare e ad essere elette) e l'accesso all'istruzione universitaria.
Diritti che poco o nulla hanno potuto incidere sulla cultura cattolica e patriarcale predominante, sulla quale negli ultimi anni, complice una televisione degradante, s'è innestata una visione ancor più oggettivante della donna.
Oggi le donne sono maggioranza del corpo elettorale e dei laureati, ma sono percentualmente al penultimo posto in Europa per elette, con il 17% delle deputate ed il 14% delle senatrici.
In media, il 20,8% nelle assemblee elettive e appena 12 donne su 268 candidate al Parlamento europeo.
Pur essendo più colte dei maschi, solo poche si collocano ai vertici della P.A. e delle grandi imprese.
Eppure, la nostra Carta Fondamentale, figlia di una Resistenza alla quale le donne hanno dato un immenso quanto sottovalutato tributo, già nel ‘48, prevedeva all'art. 51 il diritto alla parità d'accesso a pubblici uffici e cariche elettive, principio rafforzato dalla legge costituzionale n. 1/2003.
D'altronde, l'art. 51 non è altro che una specificazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.
Lo Stato, e quindi ogni suo organo, promuove con appositi provvedimenti (compresi i decreti di nomine in organismi pubblici) le pari opportunità.
Principio disatteso, di recente anche all’Istat, nonostante tanti comitati e un ministero preposti a vigilare sul rispetto dello stesso.