di Adriana Spera
Oggi più che mai l’8 marzo non sarà un giorno di festa per le donne che vivono in questo paese, viste le condizioni di lavoro e di vita, i diritti negati, lo smantellamento del welfare pubblico che è in atto, le “riforme” che si prospettano e ciò che è peggio: l’immagine di donna (o meglio, di femmina, ossia oggetto di riproduzione e di piacere maschile) che si va affermando attraverso tutti i media.
Dopo un ventennio di grandi conquiste, dalle leggi su divorzio e diritto allo studio del 1970 ad una maternità serena (legge 1204/71), al nuovo diritto di famiglia del ’75.
Passando al cruciale 1978 in cui vennero approvate le leggi: sull’aborto, la Basaglia con la quale si chiusero quei manicomi cui spesso finivano le donne non gradite in famiglia e quella istitutiva del sistema sanitario nazionale.
Per finire all’inizio degli anni ’90, in cui si vararono la legge di parità, quella sulla disabilità e quella contro la violenza sessuale, che finalmente riconosceva lo stupro come reato contro la persona e non come reato contro la morale.
Un corpus di leggi che dai primi anni ’90 o è rimasto sulla carta o si sta smantellando, con altre leggi nazionali, come la n. 40/2004, o locali, come la “Tarzia”, nel Lazio, che smantella i consultori.
Molti servizi pubblici locali saranno privatizzati o de finanziati, le risorse destinate al welfare pubblico sono ormai ridotte al lumicino e quel poco che c’è si preferisce erogarlo sotto forma di bonus ad personam con meccanismi clientelari.
Scuola e sanità pubblica sono ormai allo sfascio, la precarizzazione del lavoro specie femminile dilagante.
Noi donne paghiamo il prezzo più alto su tutti i fronti e ormai il nostro corpo è sempre più considerato un oggetto, al punto che, all’accusa di violenza perpetrata da uomini in divisa questi possono rispondere: lei ci stava!