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Martedì, 14 Mag 2024

di Maurizio Sgroi*

Nel paradiso terrestre della Germania le banche somigliano al serpente biblico. Lo stesso Fondo monetario, che nel suo ultimo staff report ha definito la Germania un “safe heaven”, vista la robustezza dei suoi fondamentali, non può fare a meno di rilevare che “il settore finanziario continua a trovarsi di fronte delle sfide strutturali”, e che il sistema bancario, benché abbia fatto progressi, “rimane ancora vulnerabile”.

Le ragioni di tale vulnerabilità sono molteplici. La prima, strutturale, è la politica di bassi tassi seguita dalla Bce, che se da un lato favorisce la domanda di credito (in teoria, perché in pratica la domanda di credito è ancora molto debole) dall’altro indebolisce sempre di più il margine di redditività delle banche, oltre a mettere sotto pressione tutto il settore assicurativo e dei fondi pensione.

Come se non bastasse, sebbene le banche tedesche abbiano migliorato i propri requisiti di capitale, e si apprestino ad adeguarsi agli standard di Basilea III, a livello strutturale i loro requisiti patrimoniali rimangono deboli, in confronto ad altri competitori globali. Ciò anche a causa dell’alto livello di crediti deteriorati, il 41 per cento dei quali riguardano l’eurozona e il resto il settore immobiliare commerciale internazionale e diverse attività cartolarizzate.

Ed è stata proprio l’eurozona il territorio sul quale si è consumato gran parte del riequilibrio bancario fra il 2007 e il 2012.

Un grafico elaborato dal Fmi mostra con chiarezza che a fine 2007 l’esposizione estera delle banche tedesche quotava 3.110 miliardi di euro, dei quali oltre 500 miliardi nei confronti dei GIIPS (gli ex Piigs). Sul finire del 2012, l’esposizione era diminuita del 36%, fermandosi a quota 1.989 miliardi, e uno dei rientri maggiori di capitali tedeschi dall’estero è stato compiuto proprio ai danni degli stati del Sud Europa, nei confronti dei quali l’esposizione è crollata di oltre la metà, mentre è rimasta stabile la quota di esposizione nei confronti di altri paesi dell’area.

In compenso, la montagna di soldi che il governo tedesco ha messo sul piatto per sostenere il settore nel corso della crisi (29 miliardi di capitale e 174 miliardi di garanzie) ha dato i suoi frutti: 12 miliardi sono stati già restituiti dalle banche al Fondo di stabilità finanziaria (SoFFin) e rimangono in piedi appena 1,1 miliardi di garanzie. Ciò ha consentito a uno degli anelli più deboli della catena bancaria tedesca, le Landesbanken, di effettuare un corposo deleveraging e di migliorare il proprio coefficiente Tier 1.

Malgrado tutto ciò, la dipendenza delle grandi banche tedesche dal finanziamento all’ingrosso rimane alta e il Fmi  suggerisce agli istituti di aumentare ancora la propria dotazione di capitale, specie in vista dell’attivazione del meccanismo di supervisione europeo, che coinvolgerà circa i due terzi dell’intero sistema bancario.

A tal proposito, il Fmi nota che “la visione delle autorità tedesche nei confronti dell’Unione Bancaria non è pienamente allineata con quella di livello europeo. Le autorità tedesche sembrano particolarmente riluttanti nell’adozione di un’autorità centrale di risoluzione“. D’altronde, lo stato di salute del sistema bancario nazionale giustifica i timori relativi a una gestione sovranazionale del meccanismo di risoluzione (leggi fallimento).

Le complessità del settore finanziario si innestano in un più ampio meccanismo di riequilibrio che, nell’opinione del Fondo monetario, è ormai ineludibile per la Germania, definita “un’ancora di stabilità per la regione”.

Il presupposto è che il peso dell’export sul Pil tedesco è quasi raddoppiato negli ultimi anni, arrivando a sfiorare il 90%, grazie anche alle esportazioni crescenti nei confronti dell’Asia, ma soprattutto grazie all’interconnessione crescente con alcuni paesi dell’Est, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia.

Che l’economia tedesca sia sempre più export-led, tuttavia, porta con sé alcune fastidiose controindicazioni. A cominciare dalla crescente sensibilità agli shock globali.

Il partner principale del commercio tedesco è ancora l’Europa, dice il Fondo, ma l’interrelazione con Usa e Cina “è molto più ampia di quella che certificano le statistiche”. Trattandosi di un’economia molto aperta, è del tutto fisiologico che “il sistema finanziario tedesco sia altamente interconnesso con il resto del mondo, e quindi esposto all’evoluzione dello sviluppo altrui”.

E qui si torna al problema iniziale: “Poche grandi banche tedesche sono notevolmente interconnesse con altre banche sistemiche globali europee. Queste grandi banche hanno tuttora una notevole esposizione all’estero e sono esposte a rischi di ricadute interne da shock esteri”.

Ricapitoliamo: il successo dell’economia tedesca, ossia il boom delle esportazioni, comporta il rischio di pesanti contraccolpi finanziari, visto che commerciare con l’estero porta con sé di dover tessere rapporti sempre più complessi e sostanziosi con altre banche e con altri paesi.

Tali rischi sono mitigati, ma non eliminati, dai robusti fondamentali macroeconomici di cui gode la Germania: bassi livelli di debito pubblico e privato, che la rendono capace di assorbire meglio gli shock. Ma ciò non vuol dire che il paese non abbia bisogno di una robusta inversione di tendenza.

Il Fmi dedica un capitolo del suo staff report proprio a questo: la tenuta della stabilità esterna. Il conto corrente tedesco è cresciuto di un altro 0,8% nel 2012, arrivando al 7% del Pil. Molto di tale progresso, tuttavia, è dipeso dalla contrazione degli investimenti e dal calo di import, visto che dal 2007 il saldo positivo di conto corrente nei confronti dei GIIPS è andato costantemente declinando (in parallelo, e non è un caso, col rientro dall’esposizione bancaria nei confronti di questi paesi). Ciò dimostra una volta di più che la Germania, con le sue banche, finanziava le sue esportazioni nei paesi del Sud Europa.

E tuttavia il “dividendo” dell’euro ha consentito alle Germania di accumulare una posizione netta sull’estero pari a circa il 40% del Pil: una montagna di denaro che in qualche modo deve essere impiegata. E che non è detto duri per sempre.

L’analisi del Fmi, infatti, individua un gap del conto corrente corretto per il ciclo di 5-6 punti di Pil, in parte dovuto alla mancanza di un meccanismo di aggiustamento del tasso di cambio entro l’unione monetaria e in parte agli sviluppi in altri paesi dell’area dell’euro. A proposito di cambio, il Fondo calcola che il tasso reale di cambio risulta sottovalutato fra il 2 e il 10% e si trova circa l’8% al di sotto la sua media storica.

Sarà per questo che nelle sue previsioni il Fondo stima che nel medio termine il conto corrente tedesco si ridurrà di circa il 2-3% del Pil e perciò sarebbe prudente, scrive, “che tale processo di naturale riequilibrio fosse accompagnato da riforme strutturali nei settori non legati al commercio”.

Insomma: la Germania dovrebbe investire di più su un modello di sviluppo non export-led. “Non sarebbe inappropriato – scrive il Fmi – che i salari reali crescessero. Ciò aiuterebbe a migliorare la labor share della ricchezza nazionale e aiuterebbe la domanda domestica, rendendo l’economia meno vulnerabile agli shock esterni. Meglio ancora se tutto venisse accompagnato da riforme fiscali e del sistema finanziario”.

Le autorità tedesche hanno replicato che in effetti la crescita dei salari è in atto e quindi, dal loro punto di vista, il riequilibrio è già in corso. Peraltro tutto ciò sta avvenendo in un momento di crescita dei valori immobiliari che “vengono attentamente monitorati”, anche per le importanti ricadute che tale settore ha sul settore finanziario.

E qui si chiude il cerchio. Lo stato di salute delle banche tedesche rischia di rallentare il riequilibrio del paese. Al saldo positivo del conto corrente, infatti, corrisponde ovviamente un saldo negativo sul conto finanziario della bilancia dei pagamenti. I larghi afflussi di capitali tedeschi all’estero sono insieme la fonte dei notevoli guadagni sui redditi delle partite correnti, ma al contempo la fonte di rischio principale di banche ancora deboli sul versante della redditività, e sottocapitalizzate.

Sono loro il peso che zavorra il riequilibrio tedesco.

 

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