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Domenica, 28 Apr 2024

di Adriana Spera

Legge di stabilità, un nome proprio azzeccato. Una volta si chiamava legge finanziaria, era l'epoca in cui ancora il mondo politico aveva qualche capacità progettuale, chissà se dovuta al fatto che esistevano ancora dei partiti veri o se, grazie al sistema delle preferenze, gli eletti avevano una maggiore attenzione per i bisogni del paese, oppure, più banalmente, il semplice fatto di essere meno retribuiti li faceva restare con i piedi per terra.

Lungi da noi l'intenzione di fare del qualunquismo, ma dopo la lettura della legge di stabilità (per ora approvata solo dal Senato) abbiamo avuto un'altra conferma, semmai ce ne fosse bisogno, del livello davvero basso raggiunto dalla nostra classe politica. E sì perché questo provvedimento dimostra quanto sia assente nella testa di chi ci governa un progetto per traghettare fuori dalla crisi il paese. Senz'altro qualcosa stabilizza, secondo noi il declino italiano, senza fare neppure un po' di solletico alla crisi economica che affligge il paese ormai da oltre sei anni.

L'Italia avrebbe bisogno di ripartire dalle sue eccellenze: beni culturali, industria manifatturiera, agricoltura. Ebbene, le voci cura e valorizzazione del più ricco giacimento di opere d'arte, dei luoghi pregni di storia, degli straordinari paesaggi della nostra penisola sono praticamente assenti dall'agenda di governo, così come la piccola e media industria, che pure tengono alta la bandiera delle esportazioni, nonostante tutte le difficoltà del momento. Quanto all'agricoltura, v'è tutto un fiorire di fondi e fondini che possiamo ben immaginare come saranno spesi, ma manca del tutto un'idea complessiva di sviluppo sostenibile, di valorizzazione e recupero dei prodotti tipici.

Comunque, le risorse stanziate, senza adeguati interventi per contrastare il dissesto idrogeologico, a nulla servono. Persino le associazioni dei costruttori chiedono di investire nel recupero del costruito ma chi governa non se ne accorge. In tutto il paese vi è un fiorire di imprese green, unico settore in cui cresce l'occupazione, gli italiani hanno investito molto nell'energia rinnovabile tanto da migliorare il conto energetico nazionale ma chi ci governa continua a privilegiare l'energia prodotta con combustibili fossili.

Insomma, mentre i cittadini hanno chiaro cosa fare, il governo da anni non dispone neppure di un piano energetico nazionale, libero dai condizionamenti dei grandi produttori, di un piano di recupero per la valorizzazione del paesaggio. Eppure, agricoltura, cura del territorio e del patrimonio culturale, turismo, piccola industria manifatturiera, produzione di energia verde potrebbero essere il motore della ripresa economica insieme a ricerca e innovazione.

Con la disoccupazione che aumenta a ritmi frenetici, è del tutto inutile continuare a piangersi addosso se poi non si mettono in campo provvedimenti strutturali atti a invertire la rotta. Gli incentivi annuali per le assunzioni a tempo indeterminato, le deduzioni fiscali sui lavori di ristrutturazione e l'acquisto di elettrodomestici a basso consumo sono solo un palliativo, in un contesto drammatico come questo.

A che punto è la notte dell'economia italiana lo dimostrano gli stanziamenti per la cassa integrazione in deroga. La crisi non si contrasta distribuendo l'elemosina di fondi e fondini di cui è piena questa legge e che sono sì un fiume di denaro ma che meglio si sarebbe dovuto impiegare in progetti di ampio respiro come la cura del territorio, la manutenzione di edifici pubblici e scuole e per rafforzare un welfare state sempre più traballante con i tagli alla sanità e all'assistenza ai disabili. All'università e alla scuola vanno rispettivamente maggiori risorse per 150 e 220 mln, niente alla luce dei tagli operati dai ministri succedutisi negli ultimi venti anni, Gelmini in testa, niente per le assunzioni.

Sullo sfondo, però, ci sono i tagli che verranno operati dal commissario straordinario alla spending review, che entro il 31 luglio dovrà «adottare misure di razionalizzazione e di revisione della spesa, di ridimensionamento delle strutture, di riduzione delle spese per beni e servizi, nonché di ottimizzazione dell’uso degli immobili tali da assicurare, anche nel bilancio di previsione, una riduzione della spesa delle pubbliche amministrazioni in misura non inferiore a 60 milioni di euro nell’anno 2014, a 700 milioni di euro nell’anno 2015 e a 1.410 milioni negli anni 2016 e 2017». Cifre spaventose alle quali si andranno a sommare «variazioni delle aliquote di imposta e riduzioni della misura delle agevolazioni e delle detrazioni vigenti tali da assicurare maggiori entrate pari a 3.000 milioni di euro per l’anno 2015, 7.000 milioni di euro per l’anno 2016 e 10.000 milioni di euro a decorrere dal 2017». Ma a fronte di tanti tagli si continua a non affrontare un tema cruciale qual è quello del costo standard, per cui accade che la stessa cosa da una parte costa 10 e da un'altra 100. Non si affronta perché stabilire costi uniformi significa eliminare un'altra fonte di approvvigionamento, di finanziamento occulto per i partiti.

Non pagheremo più l'Imu sulla prima casa ma il conto è ben più salato, perché oltre alla medesima Imu, avremo la Tasi sui servizi, la Tari per i rifiuti e l'Iuc.

Un conto che verrà pagato in primis da pensionati e dipendenti pubblici. Per i primi, qualora abbiano un assegno pari o inferiori a tre volte il trattamento minimo Inps, è praticamente bloccata ogni rivalutazione della pensione e riceveranno la buonuscita a rate. Per i secondi, i contratti non potranno registrare alcun aumento delle retribuzioni fino al 2017, né sarà possibile alcun recupero del maltolto. Inoltre, «a decorrere dal 1º gennaio 2015, le risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio sono decurtate di un importo pari alle riduzioni operate per effetto del precedente periodo» (co. 305).

Il governo Letta non è stato capace neppure di risolvere l'annoso problema dei precari, anzi le norme previste nella cosiddetta legge di stabilità tolgono anche le ultime speranze. Le pubbliche amministrazioni, infatti, possono procedere, previo effettivo svolgimento delle procedure di mobilità, ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite di un contingente complessivamente corrispondente ad una spesa pari al 40 per cento di quella relativa alle cessazioni di dipendenti avvenute nell'anno precedente, per un numero di nuovi assunti pari al 50%. Per i precari degli enti locali, poi, l'assunzione diventa una vera chimera, considerato che, se prima v'era il blocco del turn over per i comuni la cui spesa per il personale superava il 50% di quella corrente, ora ai fini del computo della percentuale si devono calcolare anche le spese sostenute da aziende speciali e istituzioni. E sappiamo bene che di vicende come quelle delle municipalizzate romane è piena l'Italia.

In conclusione, resteremo tutti “stabilmente” ancorati alla crisi.

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

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