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Martedì, 30 Apr 2024

di Adriana Spera

“Non c'è due senza tre”, recita un antico adagio. Così è stato per il decreto detto “Salva Roma”, ossia il decreto che dovrebbe garantire alla capitale le risorse necessarie ad evitare il default.

Il 22 dicembre 2013, una prima versione del decreto arriva alla Camera ed è scontro perché molti deputati, forse per “garantire la par condicio” con i propri collegi, hanno aggiunto una serie di emendamenti volti sia a tappare i buchi di altri enti locali che ad accontentare le proprie clientele, arrivando  persino a proporre penalizzazioni per i comuni che vietano le slot machine e a salvare gli affitti d'oro degli enti pubblici. Il decreto passa, ma si pensa di provvedere successivamente, con un altro decreto, a cancellare le cosiddette “norme porcata”.

Da notare che alla ridda emendativa avevano partecipato quasi tutti i partiti di maggioranza e opposizione, parlamentari romani e non, e che la senatrice di Scelta Civica, Linda Lanzillotta (ex Pd, ex Margherita ed ex Assessore al Bilancio del comune di Roma dal '93 al 99), aveva proposto la vendita di Acea, società che gestisce elettricità e acqua a Roma e non solo. Il 24 dicembre il decreto (che sarebbe scaduto il 30) arriva in aula al Senato con il suo carico di emendamenti scandalosi e inconferenti ma interviene Napolitano e blocca tutto. Letta il giovane annuncia allora che inserirà il provvedimento per salvare Roma nel decreto omnibus chiamato non a caso “milleproroghe”.

Il provvedimento riparte con una serie di stop and go sia al Senato che alla Camera. Passano così 42 giorni e si arriva a mercoledì scorso, 26 febbraio, alla vigilia della scadenza del provvedimento, quando ormai è chiaro che non ci sono più i tempi per l'approvazione.

«In marzo − tuona il Sindaco-chirurgo − non ci saranno più i soldi per pagare i dipendenti, per il gasolio dei bus, per gli asili nido, per i rifiuti e neppure per le santificazioni dei due Papi. Se si dovessero licenziare 4 mila dipendenti, vendere Acea, liberalizzare trasporti e rifiuti – aggiunge – se ne occuperebbe un commissario liquidatore, non io».

Ed ecco che arriva il Salva Roma, meglio l’Affossa Roma di Renzi.

Con il decreto precedente si consentiva a Roma di trattenere 500 milioni, derivanti dal gettito dei tributi locali e di spalmarli sui bilanci 2013 e 2014 per chiudere in pareggio, anziché versarli al Commissario straordinario sul debito, come dovrebbe fare dal 2008, per rientrare dallo stratosferico debito di 12,5 miliardi accumulato in circa 50 anni.

Con il nuovo decreto, il Governo autorizza il commissario straordinario ad anticipare alla gestione ordinaria del Comune l'importo di 570 milioni di euro, in cambio Roma dovrà stilare un piano di rientro dal deficit, che inevitabilmente dovrà prevedere privatizzazioni di servizi, spending review, dismissioni di aziende comunali, vendita del patrimonio e riduzione del personale.

Il comune di Roma dovrà dismettere le «società partecipate, che non risultino avere come fine sociale attività di servizio pubblico» e, quindi, rischiano di esser (s)venduti anche l'Auditorium, che è in utile, Zètema, Risorse per Roma, Farmacap. Quanto, poi, alla razionalizzazione attraverso la creazione di una holding, senza prima sfoltire le partecipate inutili, si rischia solo di creare un carrozzone sul modello del vecchio Iri.

In sostanza, dunque, con il decreto Renzi ciò che l'emendamento Lanzillotta limitava all’azienda Acea è stato esteso a tutta la galassia delle società comunali.

Con questo provvedimento è venuto finalmente allo scoperto quel che covava sotto la cenere da mesi all'interno del Partito Democratico capitolino, ma che è solo il punto di arrivo di un lungo cammino iniziato nei primi anni '90, fin dalla approvazione di quella legge 142/90, che consentiva varie forme di gestione dei servizi pubblici locali e la trasformazione in società di diritto privato di quelle che erano allora le aziende municipalizzate.

Un cammino proseguito nel '97 con la legge delega sugli enti locali e poi con la legge 267/00, il nuovo testo unico sugli enti locali, per finire nel gorgo dei provvedimenti sia del governo Berlusconi che di quello targato Monti, che hanno imposto una serie di privatizzazioni di servizi locali. Senza poi contare gli effetti nefasti del patto di stabilità, della drastica riduzione dei trasferimenti statali agli enti locali.

Un cammino solo momentaneamente interrotto dai referendum di tre anni fa e subito dopo i quali, non a caso, è arrivato il governo Monti.

Si parla sempre di disavanzo dello Stato e poco di quello degli enti locali. Eppure si tratta di cifre spaventose, nonostante la tassazione a livello locale sia cresciuta negli anni e continuerà a crescere con o senza Imu, così come il costo dei servizi.

I romani, ad esempio, nel 2013 hanno versato nelle casse del Comune 2,9 mld, tra Imu, addizionale Irpef, tassa rifiuti e imposte varie. Senza contare le multe, per le quali solo la morosità ammonta a 732mln. Quello che non ci dicono è quanto la normativa ha contribuito, insieme al ricorso a strumenti finanziari per così dire “creativi”, a far lievitare il deficit e i costi dei servizi.

L'affidamento dei servizi a soggetti terzi e la trasformazione delle società municipali in società di diritto privato, seppure a capitale interamente pubblico, esenti da ogni controllo, hanno portato Roma ai disavanzi miliardari di Atac (1,6mld), Ama (677mln), Farmacap (15-20mln), nonché a società partecipate che “figliano”, di fatto senza alcun controllo, degenerando nelle note parentopoli.

Qualche anno, fa la galassia del gruppo comune di Roma si stimava (il numero preciso non è stato mai possibile accertarlo, neppure dalle relazioni allegate ai bilanci comunali) comprendesse almeno 93 aziende.

Grazie agli affidamenti a società terze, le famose esternalizzazioni, il costo dei servizi a domanda individuale (asili nido, mense scolastiche, musei, mercati all'ingrosso) è lievitato a 176 milioni mentre dalle tariffe il Comune incassa solo 38 milioni. In particolare, dai biglietti per mostre e musei si incassano solo 7mln mentre si spendono per la gestione degli stessi 50mln.

Ai suddetti problemi, comuni a quasi tutte le città italiane, per Roma occorre aggiungere anche la scriteriata gestione per 50 anni degli espropri  dei terreni - una gestione fino al '93 dai contorni opachi - spesso fatti senza rispettare né le modalità né i tempi previsti dalla legge, per poi arrivare a liquidare ai proprietari il prezzo di mercato.

Una partita, quella degli espropri, che ha innescato un contenzioso tanto enorme (pari a circa due terzi del disavanzo), quanto lungo da smaltire. A tutto ciò vanno a sommarsi gli alti costi di gestione legati a una città cresciuta a macchia di leopardo e al ruolo di città capitale. Almeno 500mln l'anno, di cui 50 per seicento tra sit-in e cortei.

Il fatto è che gli enti locali, e Roma in particolare, sono per società finanziarie e imprenditori un piatto ricco in termini di servizi e patrimonio da spartirsi e accaparrarsi, 570 miliardi secondo una stima della Deutsche Bank del 2011.  E ora la crisi può favorirne l'accaparramento “ai saldi”.

In conclusione, il vero obiettivo di molti, politici in testa (democratici, compresi), è la dismissione, la cancellazione della funzione pubblica e sociale dell’ente locale in quanto ente di prossimità al cittadino, espressione della comunità.

Si vuole la mutazione degli enti locali: da erogatori e garanti dei servizi per i cittadini, a sponsor di soggetti finanziari e speculatori per la gestione di servizi privatizzati.

La trasformazione è già nel lessico, laddove non si parla più di servizi all'utenza ma ai clienti.

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