Solo qualche giorno fa, dopo ben quindici anni di attesa, Tinto Brass, indiscusso maestro della filmografia erotica del nostro paese, ha appreso dal giudice (Tar Lazio, sez. III ter, 24 settembre 2014, n.9961) la legittimità dell’esclusione del suo film Monella del 1998 dai benefici economici previsti dalla legge (n.1213 del 1965).
Il Tar ha confermato così la bontà della decisione del Dipartimento dello spettacolo presso la Presidenza del Consiglio, adottata sulla base del conforme parere dell’apposita Commissione di esperti, secondo cui il film, “pur in presenza dei requisiti tecnici, è, in concreto, finalizzato allo sfruttamento in modo volgare dei temi sessuali ai fini di speculazione commerciale”.
E’ chiaro che qui siamo sul piano della legittimità, dato che il Tar, com’è noto, non può entrare nel merito dell’opera, come ha fatto e poteva fare, invece, la Commissione, che si è ampiamente diffusa sul contenuto del film, traendone approfondite considerazioni circa l’assenza di qualsivoglia messaggio positivo sull’universo femminile, mentre prevarrebbe “una raffigurazione della sessualità confinata ad un mero descrittivismo e svuotata di risvolti psicologici, che soli avrebbero potuto affrancare la storia di un voyeurismo scontato e malinconico”. Niente benefici, dunque, a film del genere, ”che sfruttano volgarmente temi sessuali a fini di speculazione commerciale”.
La prima considerazione che ci viene da fare è che, pur ammettendo che sia così, a Tinto Brass potevano farglielo sapere anche un po’ prima e non sedici anni dopo l’uscita del film.
Di sicuro, tra i film del maestro milanese, ce ne sono di migliori (penso, ad esempio, a La chiave), ma chissà quanti altri film di analogo, se non inferiore, valore, sono stati “ammessi ai benefici”, mentre a Monella questi sono stati negati.
I benefici, appunto, che rivelano come nella perdurante fragilità della nostra industria cinematografica, il ruolo del “pubblico” rimanga tuttora di assoluto rilievo, con tutte le conseguenze che possono derivarne. Ma la vicenda è altresì, in qualche modo, l’ennesimo episodio dell’interminabile diatriba tra coloro (di solito, i tradizionalisti) che ritengono che “l’osceno non è mai arte” e gli altri (di solito, gli innovatori) per i quali “l’arte non è mai oscena”.
Sotto quest’ultimo profilo, pornografia a parte, i rapporti di Tinto Brass con l’autorità sono sempre stati, se non tumultuosi, di certo movimentati. Pochi ricordano (colgo quindi l’occasione per farlo io) che già ai suoi esordi, nei primi anni sessanta, dinanzi a una censura che gli intimava di rigirare la pellicola In capo al mondo, un film sui disagi di un giovane che stentava a integrarsi nella società, il regista milanese non se ne diede per inteso, limitandosi a cambiargli soltanto il titolo, che divenne Chi lavora è perduto.
Un gesto di cui non tutti sarebbero stati capaci.