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Mercoledì, 08 Mag 2024

Ora che l’Istat ha diffuso le tavole di mortalità per il 2016, che indicano nel triennio un aumento di cinque mesi della speranza di vita residua di un sessantacinquenne, tutti vorrebbero modificare la norma che, a decorrere dal primo gennaio 2019, fa scattare automaticamente a 67 anni l’età per accedere alla pensione di vecchiaia.

I sindacati e i presidenti delle commissioni Lavoro di Camera e Senato Damiano (PD) e Sacconi (Forza Italia) continuano a chiedere da tempo almeno un congelamento fino al 2021 dell’attuale soglia di 66 anni e 7 mesi, ma il Governo finora è rimasto sordo alla richiesta, avendo stimato il costo del mancato adeguamento in 5 miliardi di euro nel biennio.

Vista l’impopolarità del provvedimento e l’avvicinarsi della scadenza elettorale, ora anche il segretario del Pd Matteo Renzi sembra disponibile a riaprire il discorso (a Porta a Porta ha detto che è necessario intervenire per scongiurare lo scatto), ma i tempi per modificare la norma sono stretti, visto che entro la fine di quest’anno dovrà essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto direttoriale con il quale si prende atto dei nuovi limiti.

Il caso ha voluto che l’anno preso in considerazione per il calcolo, il 2016, sia un po’ particolare, in quanto cade a cavallo di due stagioni in cui si è registrato un eccesso di mortalità.

Ma proprio il boom di decessi del 2015, che ha causato l’uscita prematura di anziani in condizioni precarie di salute, potrebbe aver provocato un effetto ‘rimbalzo’ sulla speranza di vita del 2016, aumentata più di quanto sarebbe accaduto in condizioni normali.

Il record di 75 mila morti registrato a gennaio 2017, 20 mila in più del 2016 (+36%) e 10 mila in più del 2015 (+15%), a meno di un recupero nel resto dell’anno, potrebbe abbassare nuovamente la speranza di vita dei sessantacinquenni, ma ai fini dell’adeguamento dell’età pensionistica non avrà alcun effetto, perché nel frattempo il provvedimento di innalzamento a 67 anni è stato già adottato.

Buon senso vorrebbe che, pur nel rispetto della sostenibilità di lungo periodo del sistema previdenziale, si rimettesse mano alla normativa, individuando indicatori della vita residua più specifici, che garantiscano una maggiore equità nelle diverse situazioni.

Dal primo gennaio 2019, sarà sempre più residuale il numero di lavoratori che vanno in pensione con il trattamento retributivo pieno (coloro che avevano 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995) e con il progressivo adeguamento al contributivo, in linea di principio ha poco senso, in termini attuariali, fissare un’età obbligatoria per la pensione, laddove sarebbe meglio lasciare libertà di scelta se restare a lavorare o godersi la pensione, per coloro che, a prescindere dall’età anagrafica e dall’anzianità contributiva, hanno accumulato un montante tale da garantirgli una rendita in grado di soddisfare il minimo vitale.

Un’apertura, questa, che favorirebbe il ricambio generazionale nel mondo del lavoro, offrendo una chance a tanti giovani - e meno giovani – oggi disoccupati o sottopagati. Se la politica, una volta tanto, non ragionasse solo in termini di ritorno elettorale delle proprie decisioni, avrebbe l’occasione di dare il via - insieme alle parti sociali - a una seria riflessione su come dovrà articolarsi il sistema previdenziale negli anni a venire.

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