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Sabato, 20 Apr 2024

Goffredo bettiniCom’è noto, la linea politica propugnata da Goffredo Bettini fin dal suicidio politico di Salvini nell’agosto dello scorso anno, è quella dell’intesa di governo non occasionale con il M5S.

Qualche giorno fa, il 6 ottobre, ha dato una lunga intervista al Riformista per controbattere le posizioni e i dubbi espressi su questa politica dal filosofo e suo amico Mario Tronti.

Il succo politico è stato riassunto da Bettini con un richiamo alla lezione del suo vecchio maestro Pietro Ingrao: bisogna stare nel “gorgo” dell’antipolitica per contrastarla. Giusto, sacrosanto e vero. Il problema, però, è come ci si sta in questo “gorgo”, evitando, se possibile, di non affogare.

Bettini parte da un riconoscimento: “Il problema siamo noi che attraverso la politica non siamo riusciti a prendere le misure al tumulto degli avvenimenti dopo l’89 e poi dopo il ‘92. La fine del comunismo realizzato e Tangentopoli. Due date fondamentali. Da lì, la fine di un’epoca ha inghiottito la grande politica sostituita dalla gestione amministrativa e dall’esercizio del potere. Ma su questo credo di pensarla come Tronti”.

È un riconoscimento assai limitato, parziale e per certi versi fuorviante che non ci dice il perché e il per come quel “noi”, cioè la sinistra italiana, e anche europea, sia decaduta politicamente e moralmente nella “gestione amministrativa e dall’esercizio del potere” in quest’ultimo trentennio.

È successo proprio perché si è fatta trascinare nel “gorgo” neoliberista e politicista ritraendosi, spaventata, dall’analisi di ciò che stava mutando nella società, nelle strutture e nelle sovrastrutture: un mutamento epocale causato dalla rivoluzione conservatrice e globalizzatrice, progrediente sulle robuste spalle di quella tecnologica. E a questo rivolgimento che non sono state prese le misure.

Non è sulla caduta del comunismo e men che meno su Tangentopoli che gli eredi di Berlinguer hanno perso la partita, è su ben altro: il contrasto nel pensiero critico e nell’azione popolare e di massa del neoliberismo. Come non ricordare i ditirambi alla globalizzazione avanzante dei nostri blairiani?

A questo proposito, è significativo il riferimento bettiniano alla vicenda del Pd di cui fu all’inizio coordinatore nazionale. “Allora c’eravamo noi e Berlusconi – dice –. Si poteva pensare a una sorta di bipartitismo in grado di semplificare la geografia politica di un Paese in cui ha prevalso sempre il ‘particolare’ e di rendere netta e chiara l’alternativa tra i democratici e la destra. Mi duole dirlo ma quell’iniziativa è stata definitivamente sepolta con l’abbattimento di Veltroni. Non sono affatto convinto che le sue dimissioni siano state una scelta felice. Ma certamente esse furono determinate da resistenze e critiche ingiuste dentro al partito. Avendo Veltroni gettato la spugna dopo aver ottenuto il 34% alle politiche, si rese manifesta la conclusione di quella stagione piena di speranze e che solo lui in quel momento poteva interpretare al livello massimo”.

Qui appaiono evidenti molte cose. La sottovalutazione della storia italiana che non si presta a semplificazioni politiche brutali; l’indebita valutazione del bipartitismo come antidoto al “particolare”, tant’è che è successo il contrario; un risultato elettorale, il 34%, del Pd che, evidente già allora, non era per niente un trionfo ma una drammatica sconfitta proprio perché ottenuto nell’ambito di un sostanziale bipartitismo coatto segnato dalla larga vittoria Berlusconi; infine, e non per ultimo, il fatto dirimente che il Pd di Veltroni era quello del Lingotto dove erano state poste le basi culturali per uno spostamento di ragione sociale (la rappresentanza dei lavoratori e degli strati popolari) subalterno al neoliberismo. E, quindi, quanto di più lontano da una predisposizione a “rendere netta e chiara l’alternativa tra i democratici e la destra”. Altro che “stagione piena di speranze”!

Inoltre, appaiono un po’ ipocrite le lamentazioni sulla sinistra internazionale incapace di attraversare il mondo, di proporre “una visione, una idea di società” e sull’Europa che “non azzarda un progetto alternativo e rinnovato di civiltà a partire dalla sua storia e dalla sua inespressa potenza”.

Tutto vero, per carità, ma Bettini vi ha partecipato a questo declinante andazzo di subalternità mettendoci, nel suo piccolo ma grande per la città in cui fu sperimentato, il “modello Roma” da lui ideato e dentro il quale è iniziata la maturazione di quel distacco dalle periferie urbane e sociali che oggi lui stesso lamenta. Una modesta autocritica non guasterebbe.

Il suo richiamo alle lezioni di realismo politico di Ingrao e Bufalini per contrastare le opinioni di Tronti è certamente condivisibile. Condivisibile l’esigenza di stare “tra le masse”, come si diceva una volta. Soprattutto se si considera che quelle “masse” sono state abbandonate per lunghi anni anche per responsabilità di esponenti della sinistra ingabbiatisi nel Pd. E non per una svista e disattenzione ma per scelte politiche e sociali.

Condivisibile anche l’esigenza di fare i conti con la realtà così com’è e che con il M5S si debba fare politica stringendo con esso vieppiù un’alleanza strategica non subalterna: “Non si può governare insieme guardandosi in cagnesco – dice giustamente Bettini -. Se si vuole governare fino alla fine della legislatura occorre un’alleanza politica aperta e collaborativa. Dove ognuno rischia qualcosa ma mette al bando manovre furbesche”.

Ma il realismo politico è tale e non scade nell’opportunismo situazionista quando, stando con i piedi ben piantati nell’”essere” della circostanza politica data, non si separa dal “dover essere” degli obiettivi più di fondo e strategici e, nel nostro caso specifico, dallo strumento partito per perseguirli.

Nella situazione attuale c’è una mancanza non secondaria che riguarda, per l’appunto, il “dover essere” della sinistra e del Pd: ciò che si fa da subito per divenire ben altro da quel che si è in questo momento.

Bettini vi accenna alla fine dell’intervista: “Nonostante le tante cose che il segretario ha conquistato, partendo da una situazione drammatica, - dice - è stata lasciata troppo sullo sfondo la riflessione sulla qualità della nostra organizzazione, dei nostri dirigenti nei territori, del nostro stile di governo. Alle regionali abbiamo ottenuto un risultato politico eccellente, che mi sembra confermato dai risultati dei ballottaggi nelle città. Ora abbiamo una finestra di alcuni mesi che ci consente di svolgere questo lavoro, un po’ travolto nei mesi scorsi dalle esigenze che ci sono piovute addosso, prima tra tutte quella sanitaria”.

È un accenno inadeguato. Non perché non esista per il Pd il problema della “qualità della nostra organizzazione, dei nostri dirigenti nei territori, del nostro stile di governo”, anzi!, ma perché esiste, ed è macroscopico, il problema di una ricomposizione e rifondazione unitaria non solo del Pd ma di tutta la sinistra, secondo nuove regole e nuove forme anche organizzative e un impianto valoriale più forte e meno aleatorio di quello dem, esposto, come abbiamo visto (Renzi docet), alle pesanti incursioni del “pensiero unico” neo liberista.

I limiti strutturali del Pd non si superano se non dentro questo processo rifondativo e unitario di tutta la sinistra. È qui che in questi mesi è mancata, e ancora manca, un’iniziativa politica innovatrice in grado non solo di resistere alle spallate di Salvini e Meloni ma di iniziare a sfondare nell’elettorato di destra e in quello assai corposo degli astenuti ormai vicino al 50%.

Un’iniziativa di cambiamento rinnovatrice (addirittura “rivoluzionaria” promise Zingaretti) che avrebbe inciso ancor di più anche nel dibattito strategico in corso nel M5S sul che fare da grandi.

Tutto ciò pare non essere nelle corde di Bettini, e non perché c’è stato il Covid 19. Egli, infatti, parla solo del Pd. Ed è per questo che il suo ragionamento stenta a uscire da un vecchio politicismo tutto preso dalla manovra politica nel presente.

Preoccupazione quest’ultima anche giusta, se si vuole (guai a sottovalutare l’azione sociale del governo Conte sotto la spinta della pandemia in Italia e in Europa e guai a minarne l’azione tanto indigesta a Bonomi e lor signori), ma che è cosa diversa dall’iniziativa politica che sposta i rapporti di forza nel profondo della società perché sa indicare una prospettiva nuova, alternativa a un passato di sudditanza al pensiero unico.

Se si vuole stare nel “gorgo” bisogna fornirsi di salvagente.

Aldo Pirone
Coautore del libro "Roma '43-44. L'alba della Resistenza"
www.facebook.com/aldo.pirone.7

 

 

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