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Domenica, 05 Mag 2024

altLa settimana scorsa ha suscitato grande clamore la notizia della condanna da parte della Corte europea dei diritti umani (Cedu) nei confronti dell'Italia per quanto accaduto alla scuola Diaz di Genova nei giorni del G8 del 2001 e per non aver mai provveduto ad istituire nel proprio ordinamento il reato di tortura. E non è che la prima condanna, molte altre ne verranno per la Diaz e per Bolzaneto.

Restano però tante domande su quanto accadde in quei giorni e, in particolare, sulla notte del 21 luglio 2001 quando, come disse Amnesty International, si verificò “la più grave sospensione dei diritti umani in un paese democratico occidentale dalla fine della II Guerra Mondiale”.

Un attacco alla democrazia che ai più, tutt'ora, sembra fosse programmato nei minimi dettagli per distruggere sul nascere quel movimento - apparso per la prima volta nel 1999 a Seattle durante la riunione del Wto e cresciuto velocemente nei mesi successivi – che con grande lungimiranza invitava i Grandi della Terra a ripensare un modello di sviluppo economico basato sulla finanziarizzazione spinta all'estremo e sulla speculazione selvaggia e a guardare, invece, alla green economy, all'equità, alla sostenibilità, perché si rischiava quello sfracello che poi puntualmente è arrivato nel 2005, con la più grande crisi sociale ed economica di tutti i tempi.

Un movimento, quello no global, inviso alle grandi multinazionali e alla finanza, che perciò andava fermato al più presto e con ogni mezzo.

Per scoraggiare i manifestanti in arrivo furono divulgate notizie allarmanti come l'acquisto di 500 bare e di 200 sacche per cadaveri, di nuovi manganelli (i tonfa) e di gas, per disperdere i manifestanti, vietati persino in guerra. Per l'evento vennero schierati 11.000 uomini e creato un nucleo speciale antisommossa, che poi avrebbe avuto un ruolo determinante nel precipitare degli eventi.

Ma fu, in particolare, la gestione dell'ordine pubblico a destare più di un sospetto. Perché i balck block vennero fatti passare alla frontiera senza alcun controllo? Perché poi li si lasciò devastare indisturbati la città, fino ad attaccare, addirittura, il carcere di Marassi, mentre, invece, furono aggrediti cortei pacifici come quello della rete Lilliput, facendo 200 feriti e 1 morto (82, di cui 3 gravi, solo alla Diaz)? E ancora, che ci facevano esponenti di governo, come il vice premier nella sala operativa della Questura di Genova? Perché alla Diaz si recò, oltre al Reparto mobile di Roma, “una macedonia di divise”, come disse il dirigente di Ps Canterini, ossia agenti di vari corpi su base volontaria? Perché si cercò di costruire una montatura sugli occupanti della scuola, portando all'interno della stessa molotov e altre armi improprie? Perché almeno 250 persone furono sottoposte fino a 36 ore di tortura consecutive da parte di decine di agenti della Polizia di Stato, della Polizia penitenziaria, dei Carabinieri, poi rimasti impuniti?

Una cosa è certa, c'era da aspettarselo, perché già nella caserma Ranieri di Napoli, qualche mese prima, erano accaduti fatti simili, quasi una prova generale di Genova.

Ma, soprattutto, restano tante domande sulla morte di Carlo Giuliani, la Corte europea che oggi condanna l'Italia è la stessa, anche se con diversi membri, che in un primo tempo, nella sua composizione ristretta diede ragione ai genitori. Poi, quando l'Italia fece ricorso alla "grande chambre", composta di 12 membri, con sette voti contro cinque respinse il ricorso, lasciando senza risposte l'omicidio del giovane.

Queste e molte altre domande sono tutt'ora senza risposte, anche perché non si è mai voluta istituire una commissione parlamentare di inchiesta. E' l'ennesima vicenda nella storia italiana, che dimostra gli intrecci stretti e devianti fra potere militare e mondo politico. Qui, come in tutti gli eventi della strategia della tensione, l’impunità dei militari è stata garantita dalla parte politica, che si è sempre servita di militari, polizia e servizi, interni ed esteri, per reprimere i movimenti. Per averne conferma, basta vedere che fine hanno fatto i vari dirigenti delle forze dell'ordine coinvolti. Che carriera hanno fatto, se sono stati condannati o no, se hanno subito censure o no. La risposta è sempre negativa, sono stati tutti coccolati e promossi dal potere politico, qualcuno anche dopo il pensionamento.

La Cedu ha riconosciuto alla parte lesa, il signor Arnaldo Cestaro, un risarcimento di 45 mila euro. «I soldi non risarciscono il male che è stato fatto – è stato il suo commento − mi sentirò davvero risarcito solo quando lo Stato introdurrà il reato di tortura. Oggi ho 75 anni ma non cancellerò mai l’orrore vissuto. Ho visto il massacro in diretta, ho visto l’orrore del nostro Stato. Dopo quindici anni, le scuse migliori sono le risposte reali, non i soldi».

E già perché siamo dinanzi ad uno dei soliti paradossi italiani. L'Italia a 65 anni dalla firma della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo e a 31 anni dalla ratifica della Convenzione di New York del 1984, che all'articolo 2 prevede “Ogni Stato Parte prende provvedimenti legislativi, amministrativi, giudiziari ed altri provvedimenti efficaci per impedire che atti di tortura siano compiuti in un territorio sotto la sua giurisdizione”, non ha mai inserito nel proprio codice penale il reato di tortura. Eppure, la prima proposta di legge sulla tortura, cui ne è seguito un numero imprecisato di altre, è stata depositata nel 1989 dall'allora deputato del Pci Nereo Battelo.

La Corte ha invitato l'Italia a “stabilire un quadro giuridico adeguato, anche attraverso disposizioni penali efficaci” in grado di “punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o di altri maltrattamenti”, impedendo loro di beneficiare di misure in contraddizione con la giurisprudenza della Corte stessa come sconti di pena, indulto, grazia o prescrizione.

I giudici, tra le righe, ricordano un'altra grave carenza nella gestione del nostro ordine pubblico: “la polizia italiana ha potuto impunemente rifiutare alle autorità competenti la necessaria collaborazione per identificare gli agenti che potevano essere implicati negli atti di tortura”.  Grazie, anche, a quella mancanza di numero identificativo che ha consentito l'impunità a tutti i poliziotti presenti alla Diaz. E di istituirlo non se ne parla proprio, c'è il veto del ministro degli Interni. Viceversa sul reato di tortura, la Camera dei deputati, nei giorni scorsi, si è affrettata ad approvare una proposta di legge che lo istituisce. Ora tornerà al Senato, ma la toppa è peggiore del buco.

La proposta, nata dal disegno di legge del senatore Luigi Manconi, che però è stato talmente stravolto da far dire allo stesso proponente che il testo uscito dalla Camera è “mediocre”, introduce il reato di tortura ma lo riduce a “reato comune”. Sono previste delle aggravanti se a commettere il reato è un pubblico ufficiale.

Scrive Manconi: “Il testo approvato alla Camera ha cancellato il riferimento allo stato di privazione della libertà e alla condizione di minorata difesa “ e aggiunge “se in Senato si discuteva del fatto che il reato potesse essere contestato non solo ai poliziotti, ma anche ai sequestratori, con il testo della camera emergono, tra i possibili autori di reato, anche i genitori e gli insegnanti”.

V'è di più, la norma rischia di non poter essere applicata nel caso della Diaz perché l’art. 1, recita: “Chiunque, con violenza o minaccia ovvero con violazione dei propri obblighi di protezione, di cura o di assistenza, intenzionalmente cagiona ad una persona a lui affidata, o comunque sottoposta alla sua autorità, vigilanza o custodia, acute sofferenze fisiche o psichiche al fine di ottenere, da essa o da un terzo, informazioni o dichiarazioni o di infliggere una punizione o di vincere una resistenza”. Come è noto gli agenti irruppero alla Diaz dove i no global stavano dormendo e, quindi, non erano sotto la loro custodia.

Come ha scritto sempre Manconi: “L’introduzione nel testo della camera di un dolo specifico (la tortura finalizzata a “ottenere informazioni o dichiarazioni o infliggere una punizione o vincere una resistenza, ovvero in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose”) fa temere che resti fuori proprio la forma peggiore di tortura. Quella, cioè, dovuta a mero sadismo e a violenza non solo del tutto priva di giustificazione, ma anche di qualsivoglia – seppur deteriore – motivazione. Esattamente quanto avvenuto nel corso del G8 di Genova nel 2001”

Francesco Viganò, Professore di Diritto Penale presso l’Università di Milano rincara la dose: ”La norma ora all’esame circoscrive l’ambito dei soggetti passivi alle persone affidate all’agente, o comunque sottoposte alla sua autorità, vigilanza o custodia, escludendo così la possibilità di riconoscere la sussistenza del delitto nell’ipotesi di gravi violenze, gratuitamente finalizzate a provocare sofferenza nelle vittime, compiute dalle forze di polizia nell’ambito di operazioni di ordine pubblico prima che le vittime medesime siano tratte in arresto”.

Insomma, con questa legge, la tortura non è un reato specifico di pubblici funzionari, come prevede la convenzione internazionale, ma diventa un’aggravante di un reato comune che ogni cittadino può compiere. Sparisce la responsabilità del pubblico ufficiale, che viene equiparato a un normale cittadino. Se passa senza modifiche in Senato, le pene andranno da 4 a 10 anni di reclusione (da 5 a 15 per i pubblici ufficiali) per chi provoca "acute sofferenze fisiche o psichiche" per ottenere informazioni, dichiarazioni o per infliggere una punizione. Due terzi della pena in più se "dal fatto deriva la morte quale conseguenza non voluta" e l'ergastolo se il decesso è cagionato "volontariamente". La legge introduce, poi, il reato di istigazione, nei confronti di un collega pubblico ufficiale a commettere tortura, pena prevista da 1 a 6 anni di reclusione.

Nessuna immunità diplomatica per i torturatori, niente espulsioni o respingimenti per i migranti che rischiano nei loro Paesi d'origine.

Il legislatore è ricorso all'escamotage tipico di chi vuol rendere inapplicabile una legge: dettagliare all'estremo le fattispecie. Con questi paletti, la maggiorazione della pena fino a 15 anni per il pubblico ufficiale a quanti casi sarà applicabile?

Siamo lontani anni luce dal Cri­mi­nal Justice Act, in vigore dal 1988 nel Regno Unito, che prevede una pena pari all’ergastolo per il pubblico ufficiale che com­mette il reato di tor­tura nell’esercizio delle sue fun­zioni.

Con questo testo l'Italia andrà incontro a nuove censure da parte della Corte europea dei diritti umani.

Di certo, se il movimento no global fosse stato ascoltato anziché represso non staremmo vivendo da dieci anni la peggior crisi sistemica della storia contemporanea.

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