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Martedì, 30 Apr 2024

Laura Elena Pacifici è un medico. Specializzata in anestesia e rianimazione; in igiene e medicina preventiva; dottore di ricerca in scienze infettivologiche e delle terapie immunologiche.

Moltissime le pubblicazioni scientifiche di rilevante significato e un backstage sanitario sugli interventi umanitari ed emergenze nelle grandi catastrofi internazionali. Attualmente è Direttore Sanitario Regionale della Croce Rossa Italiana, Regioni Piemonte e Valle d’Aosta.

Dottoressa Pacifici è possibile fare ricerca in Italia?

La ringrazio per la domanda che, seppure spinosa, mi dà modo di parlare di un argomento che mi sta molto a cuore: la ricerca. Ho seguito la polemica scaturita negli ultimi tempi sui ricercatori italiani. Direi che esistono tre ordini di problemi.

Forse per prima cosa varrebbe la pena di discutere il concetto stesso di ricerca. Per molti la ricerca rimane un’idea vincolata a provette e laboratori ma, ad esempio, la ricerca epidemiologica ha bisogno di altri strumenti.

Al di là però del pregiudizio iniziale sulla ricerca, l’Italia rimane comunque un paese difficile, che uccide l’intuizione nella ricerca. E’ complesso proporre qualcosa che non sia stato già pensato e validato. Inoltre, essere parte integrante di un team è necessario per la ricerca ma necessita di ascolto e discussione da parte di tutti, senza nascondersi dietro gerarchie e sterili burocratismi.

Lei è stata uno dei più giovani medici d’Italia nel 1985 e anche una delle più giovani specialiste (anestesia e rianimazione). Vale la pena di studiare così tanto e in fretta in base ai risultati?

Sì, le rispondo senza esitazione, vale la pena. Però vale la pena se si ama quello che si è scelto di studiare e si sa trasmettere la propria passione agli altri. In un certo qual modo io, per esempio, considero il mio migliore risultato professionale quello ottenuto quando dei giovani colleghi mi chiedono di continuare a lavorare insieme e mi offrono la loro disponibilità. Se poi mi chiede se è facile avere un contratto per loro, le rispondo che è difficilissimo.

Dal 2004 al 2009 è stata responsabile dell’ufficio cooperazione e sviluppo sanitario internazionale, presso gli Headquarters della Croce Rossa Italiana, svolgendo anche attività di prevenzione e controllo delle patologie comunicabili e loro impatto sulle popolazioni. Di cosa si tratta esattamente?

Si tratta, in particolare nelle grandi emergenze, di mappare il rischio di malattie comunicabili, analizzare i differenti determinanti, rafforzare l’assistenza sanitaria monitorandone gli interventi, fornire indicazioni che possano permettere di formulare policies coerenti e scientificamente supportate.

Tra i diversi incarichi ha rivestito il ruolo di direttore Sanitario presso il Centro Accoglienza Richiedenti Asilo di Castel Nuovo di Porto: il più grande d’Italia. Alla luce di questa esperienza, secondo lei, ha senso l’accoglienza in grandi Centri? E’ un modello perseguibile, o bisognerebbe cercare soluzioni alternative?

Il modello “Grande Centro” per gli adulti è sicuramente perseguibile, ma necessita non solo di una grande preparazione tecnica ma anche di una grande esperienza di mediazione. La Croce Rossa dà voce a chi non ha voce, quindi direi che l’ascolto e la mediazione sono nel nostro DNA. Vorrei sottolineare che, pur riconoscendo l’importanza del modello, i singoli professionisti andrebbero scelti molto motivati e dotati di grande empatia e comunicativa.

Per il nostro gruppo, ogni paziente che è passato dal nostro Servizio è stato ascoltato e seguito con lo stesso interesse professionale e umano. Anche in questo caso, una piccola soddisfazione è rappresentata dal contatto che ognuno di noi ha mantenuto sui social come fb, per mail, per telefono o di persona con qualcuno degli ospiti.

E’ stato un periodo molto intenso e complesso, ma di grande soddisfazione e con tutto il gruppo dei colleghi che hanno collaborato al Centro abbiamo cercato di trasferire l’esperienza maturata presso il C.A.R.A. in un manuale di buone pratiche, corale, sperando che potesse essere di aiuto ad altri colleghi in altri centri.

Vakarai (Sri Lanka) e Haiti sono due esempi di interventi di maxi emergenza (tsunami e terremoto) della Croce Rossa dove lei è intervenuta in qualità di medico, ma con ruoli molto diversi. Quali sono gli insegnamenti che ha tratto da queste due esperienze relativamente alle maxi emergenze? Cosa si può migliorare?

A Vakarai, avevo sia il ruolo di Direttore Sanitario che di Coordinatore Sanitario dell’intero progetto. Con me era presente un team complesso (volontari, IIVV, militari CRI) e medici di diversa provenienza, in particolare dalla Scuola di Specializzazione di Malattie Infettive dell’Università “la Sapienza”. Un gruppo infaticabile, motivatissimo e straordinario professionalmente. Un vero team, senza gerarchia, sempre in “fermento“ di ricerca. Fare la ricerca in una maxi-emergenza necessita di molto impegno anche in presenza di mezzi molto ridotti. Nonostante ciò, però, la ricerca svolta ha avuto come risultato la proposta al MoH (Ministero della Salute) locale di modificare il sistema di notifica delle malattie comunicabili: proposta che è stata accolta.

A Haiti, invece, facevo parte della missione congiunta Croce Rossa Spagnola/Croce Rossa Francese, con l’incarico di compiere alcune valutazioni sul terreno.

Dalla mia esperienza, devo rilevare che per migliorare la risposta alle maxi-emergenze si deve abbreviare la catena di comando, realizzando accordi internazionali preventivi, che consentano di affrontare le maxi-emergenze secondo procedure già acquisite.

A proposito di Vakari. Nel periodo in cui lei ha lavorato in Sri Lanka durante il “cessate il fuoco “, cosa ricorda dei vostri interventi?

Vakarai si trova sul mare a ridosso della foresta e molti dei nostri pazienti provenivano da villaggi Tamil, al suo interno. Molte erano donne che si recavano presso l’ospedale della Croce Rossa Italiana per essere seguite da un’ostetrica al momento del parto. L’ospedale provinciale più vicino era a 23 posti di blocco. Per darle un’idea dei nostri interventi, vorrei ricordare un episodio che mi sembra significativo.

Una mattina all’alba avevamo tre donne che stavano per partorire, la nostra ostetrica (Infermiera Volontaria CRI) già impegnata con due di loro. La terza presentava il bambino in posizione podalica. Ci consultiamo con l’ostetrica e decidiamo che io l’avrei trasferita all’ospedale provinciale. Un quarto d’ora più tardi mi ritrovo in ambulanza con la paziente, l’autista e l’interprete chiusa fra due posti di blocco. Il bambino da podalico diventa cefalico, “s’impegna” e io mi trasformo in ostetrica. Solo appena nato il bambino, si apre il posto di blocco e possiamo ripartire per l’ospedale provinciale. E’ il mio unico certificato di nascita firmato sia come direttore sanitario che come ostetrica.

Cosa suggerirebbe ad un giovane medico che inizia la sua carriera?

Suggerirei di non seguire i trend o di scegliere secondo la facilità di impiego ma di identificare il campo di studio più congeniale e di cercare un gruppo, un team che abbia come guida qualcuno motivato. Poi vengono tutti gli aggiustamenti di studio e di carriera. Io devo ad alcuni professori che ho incontrato lungo la mia strada professionale tutto quello che ho imparato e trasmesso.

Come mai ha preferito il settore pubblico, invece che il privato? Non guadagnerebbe di più?

Credo profondamente nel ruolo dello Stato come garante super partes dei diritti. Quindi è stato naturale per me, una volta identificata la cooperazione sanitaria internazionale come campo di interesse, scegliere la Croce Rossa Italiana, che fino a qualche mese fa è stata una delle più grandi PA italiane. Proprio in quanto PA e non attore privato, la CRI infatti ha potuto garantire interventi coordinati con le altre istituzioni, pur rispettando il principio dell’indipendenza. Certo, delle retribuzioni dei professionisti sanitari nel settore Pubblico è meglio non parlare.

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