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Sabato, 27 Apr 2024

marrakechIn questa settimana, mentre l'Organizzazione metereologica mondiale comunicava che il 2016 sarà l'anno più caldo di sempre, con una temperatura mediamente di 1,2ºC superiore a quella dell'epoca pre-industriale, a Marrakech si è aperta la 22^ Conferenza mondiale sul clima.

I nostri lettori, certamente, ricorderanno con quale clamore mediatico si annunciò lo scorso anno la firma dell'Accordo di Parigi alla fine della precedente Conferenza. Toni trionfalistici a cui si unì anche il nostro premier, manco si fosse raggiunta quella intesa esclusivamente grazie alle sue doti di mediatore ma, tant'è, conosciamo il personaggio.

Un anno dopo, l'Italia sembra ormai un paese senza pilota, il premier da mesi è in tour per la campagna referendaria. Come fosse un politico qualsiasi, dimentica altre priorità e impegni assunti.

Per esempio, soltanto lo scorso 27 ottobre il Parlamento ha concluso l'iter di approvazione del ddl di ratifica del Trattato sul clima. In ritardo rispetto ai principali Paesi europei che hanno ratificato l'accordo entro la scadenza del 19 ottobre (1 mese prima della conferenza) e per questo il nostro governo non avrà diritto di voto durante la Prima Conferenza delle parti firmatarie (CMA1), che si svolge, sempre a Marrakech, in questi giorni, ma potrà solo partecipare come osservatore.

Vabbé, dirà qualcuno, è stata solo una svista, il nostro “governo del fare” chissà quanti provvedimenti avrà assunto per far fronte all'impegno di ridurre, rispetto al 2005, del 33% le emissioni di CO2 entro il 2030.

Nemmeno uno, come emerge da L'Italia vista da Parigi, di Tosca Ballerini, Marica di Pierri e Maura Peca, edito da Asud.

Non ha modificato lo “Sblocca Italia”, che identifica le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale come “operazioni di interesse strategico” e di “pubblica utilità, urgenti e indifferibili”. Viceversa, ha sostenuto il No nel referendum anti-trivelle. E, in assenza del quorum necessario a rendere valido il referendum, nonostante la prevalenza dei contrari, ha dato il via libera a diversi nuovi impianti di ricerca e prospezione.

Così pure ha rilanciato la costruzione di infrastrutture per il trasporto su gomma (ed è tornato a parlare del Ponte sullo Stretto). Il 47% dei fondi destinati a infrastrutture riguardano strade e autostrade, e ciò nonostante il rapporto Ispra Inventario delle emissioni dei gas ad effetto serra, National Inventory Report 2016, segnali che dal 1990 al 2014 le emissioni di gas serra causate del trasporto su gomma siano aumentate del 3,2% e rappresentino il 93,7% delle emissioni totali nazionali per il trasporto, ovvero il 28,9% delle emissioni del settore dell'energia e il 23,5% delle emissioni totali del Paese.

Così pure sono riprese le politiche per l'incenerimento dei rifiuti. «Se devo continuare ad avere discariche con il rischio di infrazione Ue, l'inceneritore diventa il male minore», ha dichiarato il ministro dell'ambiente Gian Luca Galletti, in occasione del varo del Dpcm che dà il via libera a 8 nuovi inceneritori. Inceneritori definiti, tenetevi forte,: “infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale ai fini della tutela della salute e dell'ambiente”, nonostante che permetteranno di incenerire ulteriori 1.831.000 t di rifiuti l'anno, che produrranno, sempre ogni anno, 1.454.000 tonnellate di CO2, 450.000 tonnellate di scorie e ceneri, 545 chili di mercurio, 545 chili di tallio, 110 tonnellate di polveri sottili, 2.000 tonnellate di ossidi di azoto.

Viceversa, il governo Renzi ha praticamente cancellato gli incentivi per la transizione energetica e la decarbonizzazione. Nonostante il ricorso dinanzi alla Consulta, non ha modificato il Decreto Legge Competitività 91/2014, convertito in legge n. 116 dell’11 agosto 2014, né il Decreto spalma incentivi, che comportano una riduzione retroattiva degli incentivi per gli impianti fotovoltaici con potenza nominale superiore a 200kW. Conseguentemente, i nuovi impianti sono scesi da 450 (nel 2013) a 65, nel 2015.

Il settore del fotovoltaico è stato escluso anche dai nuovi incentivi proposti dal governo con il decreto 23 giugno 2016 denominato, appunto, Incentivazione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili diverse dal fotovoltaico. Inclusi nella redistribuzione dei nuovi incentivi previsti da quest’ultimo decreto sono invece i settori dell’eolico, idroelettrico, geotermico, biomasse, rifiuti e solare termodinamico.

Decreto che, comunque, è partito in ritardo e sotto finanziato, tanto che Simone Togni, presidente dell’Anev - che racchiude circa 5000 operatori di settore e più di 70 società che lavorano nelle rinnovabili - ha precisato che “a causa dei meccanismi di assegnazione degli incentivi, i numeri citati dal decreto rappresentano valori massimali ai quali bisogna applicare un 30-40% di ribasso”. Mentre, per quanto riguarda l’eolico in mare, secondo l'Anev, non si avranno grandi sviluppi perché i costi di realizzazione sono troppo elevati e gli incentivi irrisori.

Un dato è certo: gli investimenti in energia pulita sono diminuiti del 60% rispetto al 2013.

Lo stesso decreto sopracitato prevede lo stanziamento di incentivi per le biomasse una scelta controversa.

Secondo uno studio redatto dal World Resources Institute, le coltivazioni agricole intensive con finalità energetiche possono provocare grandi impatti ambientali come il peggioramento della qualità dei suoli e delle acque superficiali e sotterranee, grazie anche all’eccessivo ricorso a composti chimici. Mentre, le grandi centrali a biomasse legnose comportano un surplus di emissioni di CO2 legato all’incremento del traffico per il trasporto, come dimostra la centrale Enel del Mercure nel Parco del Pollino. Senza contare, poi, che gli incentivi possono rendere più conveniente coltivare un terreno a fini energetici piuttosto che agricoli.

Quello delle centrali elettriche è un capitolo buio delle politiche energetiche italiane, e non solo di questo governo, tuttora abbiamo in attività 12 grandi centrali a carbone. Tra le 30 centrali più impattanti al mondo vi sono la Federico II di Brindisi e di Torrevaldaliga a Civitavecchia. Eppure, è noto che la combustione del carbone produce il 30% in più di CO2 rispetto a quella del petrolio e 70% più del gas naturale.

Secondo il rapporto La nuvola scura sull’Europa, pubblicato a luglio 2016 da Health and Environment Alliance - HEAL, Climate Action Network Europe - CAN, WWF e Sandbag, nel 2013, in Europa, le emissioni delle centrali a carbone hanno causato più di 22.900 morti premature, decine di migliaia di casi di malattie e costi sanitari stimati in 62,3 miliardi di euro.

Renzi è stato, poi, tra i più accaniti sostenitori dei due Trattati di libero scambio che coinvolgono l'Unione europea, il Transatlantic Trade Investment Partnership (Ttip), finora bloccato dalle proteste popolari (vedasi articolo del Foglietto del 5 maggio 2016) e il Comprehensive Economic Trade Agreement (Ceta) sottoscritto con il Canada il 30 ottobre. Entrambi i trattati pongono il libero commercio al di sopra di tutto anche delle regole per contenere il surriscaldamento globale.

Il Climate Transparency G20 Report 2016, che valuta le politiche sul clima dei 20 Paesi più ricchi, pone l' Italia tra i Paesi con le peggiori politiche climatiche su scala nazionale.

Non è che gli altri leader mondiali abbiano fatto molto di più. Accomunati dai finanziamenti che erogano ai produttori di combustibili fossili (secondo il Fmi, 5.300miliardi di dollari pari al 6,5% del Pil mondiale) e dal rifiuto verso rifugiati e migranti. Dimenticano che molti di questi sono migranti ambientali, che fuggono da terre che si vanno desertificando o che vengono sommerse dai mari. Secondo le stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), ogni anno 6 milioni di persone sono costrette a lasciare la propria abitazione e spesso il proprio Paese. Entro il 2050, potrebbero essere tra 200 e i 400milioni, a seconda di quanto aumenterà la temperatura della Terra; se si supereranno i 3ºC, il mare salirebbe in media di 6,4 metri, le zone desertiche aumenterebbero e molte coltivazioni non sarebbero più realizzabili.

E’ stato sulla base di questi dati che, lo scorso anno, ben 195 paesi sottoscrissero l' Accordo di Parigi, in base al quale si impegnarono a contenere il surriscaldamento entro i 2°C, e, al contempo, a “compiere gli sforzi necessari per mantenere la temperatura della Terra entro +1,5°C”.

Impegno teorico, se non si abbandona l'uso di fonti fossili; basti pensare che l'insieme di miniere di carbone, pozzi petroliferi e giacimenti di gas in corso di sfruttamento contengono 942 giga tonnellate equivalenti di CO2. Mentre, secondo gli scienziati, per restare sotto 1,5ºC non dovremo superare le 353 giga tonnellate. Secondo molti studi - da ultimo, il rapporto The Truth About Climate Change, pubblicato lo scorso settembre dall'onlus argentina Universal Ecological Fund - se non smettiamo di utilizzare fonti fossili, non potremo ridurre la produzione di CO2. Insomma, la mèta di 1,5ºC sarebbe già oggi un miraggio perché dai calcoli di diversi organismi risulterebbe che i provvedimenti previsti produrrebbero un riscaldamento globale di almeno 2,7°C in più rispetto ai livelli preindustriali. Una conclusione condivisa con il gruppo intergovernativo delle nazioni unite sul cambiamento climatico (Ipcc).

L'Accordo di Parigi, che ci hanno presentato come una svolta, è, ancora una volta, un'intesa che non prevede meccanismi di controllo né sanzioni. Ma non basta, esso non pone termini precisi di tempo e di quantità di emissioni, non prevede indennizzi per i paesi più deboli e subirà il primo tagliando solo nel 2023.

Insomma, anche su questo fronte tante chiacchiere e pochi fatti.

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