Al giorno d’oggi, ancorché in varie forme e con diversa intensità, siamo quasi tutti utilizzatori della Rete, ma raramente ci fermiamo a riflettere sulla sua complessa natura.
Stando a quel che si sente dire, circolano alcune credenze, ossia che essa sia gratuita, trasparente, imparziale, democratica, persino capace di combattere e magari abbattere il potere costituito, grazie a una partecipazione ampia, diffusa e popolare.
Si tratta, invero, di false convinzioni, siccome puntualmente argomentato in un prezioso libretto “La rete è libera e democratica” Falso!, uscito a giugno scorso per i tipi di Laterza, a cura di Ippolita, un gruppo di ricerca interdisciplinare che dal 2005 conduce una “riflessione sulle tecnologie del dominio e i loro effetti sociali”.
Ci viene così spiegato che l’infrastruttura della Rete è tutto fuorché libera e democratica e che la sua gratuità, pagata da tutti a caro prezzo con la fine della privacy, è solo una trappola ben organizzata grazie alla quale regaliamo informazioni su noi stessi, che vengono poi usate per proporci pubblicità mirate, senza alcun controllo su quei dati.
Ma c’è di più, dato che ciascuno di noi collabora attivamente affinché tutto questo avvenga, attraverso la costruzione ossessiva del proprio profilo pubblico su una Rete di fatto privata.
“In questa identità unica egli armonizza una pubblicità riuscita di se stesso: un io lavorativo aggressivo, un io familiare affettuoso, un io sessuale appetitoso, un io amicale spiritoso, un io sociale responsabile”. Più che a una democrazia globale in Rete, ci troviamo di fronte a una nuova istituzione totale.
Al culmine del paradosso, del tutto inconsapevole di quanto va facendo, il cittadino della Rete (netizen, da net + citizen) si sente, viceversa, investito della grande opportunità di rifondare la democrazia in senso globale.
L’ostilità nei confronti dello Stato manifestata dalle masse indignate - spiega lo studio - è soltanto un bacino di energie abilmente incanalato dagli intermediari digitali, che hanno già in mano la nostra vita da tempo. Senza contare poi che l’informazione digitale, che ci appare impalpabile ed eterea, implica non solo “fenomeni di sfruttamento strutturale e di esproprio cognitivo, emotivo, economico degli utenti in tutto il mondo, ma anche della manodopera a basso costo e delle risorse primarie soprattutto in Asia e Africa”.
Veramente illuminanti al riguardo le pagine di questo studio che spiegano le forme di dipendenza schiavile, messe in atto per costruire “i nostri splendidi oggetti di desiderio” coi quali navighiamo in Rete.
Un quadretto, insomma, che non ci aspettavamo idilliaco, ma nemmeno così a tinte fosche.