Anime Nere, di Francesco Munzi, con Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Anna Ferruzzo, Fabrizio Ferracane, Barbora Bobulova; durata 103’, nelle sale dal 18 settembre 2014 distribuito da Good Film.
Recensione di Luca Marchetti
Di solito i festival cinematografici, e quello di Venezia in particolar modo, sono utilizzati come termometro per controllare la temperatura artistica del nostro cinema, arrivando spesso a perdere tempo di fronte a cortocircuiti autoriali e false partenze.
Quest’anno, al Lido, invece, ci siamo trovati di fronte ad una sorprendente e interessante svolta nera di molti giovani registi italiani.
Tra le varie pellicole nostrane presentate a Venezia, infatti, abbiamo incontrato diverse, coraggiose, pellicole puramente noir, dove la tragedia e il crimine ben si conciliano con un tentativo, narrativo e commerciale, di fare un Cinema diverso.
Anime nere di Francesco Munzi, in gara per il Leone d’oro, rappresenta egregiamente questa nuova parentesi di genere.
Il film, tratto liberamente dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco (vero evento letterario di qualche anno fa), si muove in territori lontani dai ritratti sociologici di Matteo Garrone o dalla visione eccitata e mainstream di Michele Placido, e punta a una terza, efficace, via.
Usando quasi sempre l’ostico dialetto calabrese, non per fini puramente etnografici, ma cercando sempre di intrecciare una trama affascinante e ben calibrata, Anime nere sembra avere parentele più con il dolente e spirituale noir italo-americano di Abel Ferrara (il pensiero corre, per forza, al meraviglioso The Funeral) che con altri esempi recenti nella nostra cinematografia.
Africo, paese situato nel cuore profondo della Calabria reggina, diventa dunque lo sfondo della tragedia di tre fratelli, divisi tra una guerra di mafia incombente e la volontà quasi eremitica di evitare tutto, ancora segnati dalla morte violenta del padre, il peccato originale che inquina tutt’oggi il loro cuore.
I protagonisti di Munzi sono, senza distinzioni di sesso o di generazione, esseri colorati dall’Odio. E’ proprio questa caratteristica quasi biologica, questa consacrazione alla rabbia e al dolore, a condannare la loro storia alla disperazione e alla tragedia. Munzi è ben consapevole di tutto ciò e con enorme coraggio intraprende l’unica strada possibile. La meraviglia del film, dunque, non risiede nelle efficaci ricostruzioni dei rapporti illegali tra la Calabria e Lombardia o nella fotografia mortuaria del microcosmo di Africo. La sua forza, invece, si trova nell’inedita volontà di raccontare senza sconti una vicenda senza alcuna ipotesi di speranza, senza nessun barlume di buonismo, con un bellissimo finale che, come ultima prova, giustifica tutto.
L’audacia di Munzi, garantita come detto da uno script thriller perfetto, è supportata dal cast eterogeneo messo in scena. L’idea, infatti, di unire i volti perfetti di tanti non professionisti con l’ardore di tanti attori non di grido (soprattutto televisivi) pronti a cogliere l’occasione della vita, si è dimostrata l’ennesima, convincente decisione di un regista pronto per un importante futuro.