“Hungry Hearts”, di Saverio Costanzo, con Adam Driver, Alba Rohrwacher, Roberta Maxwell, Jake Weber, David Aaron Baker, Victoria Cartagena, Toshiko Onizawa, Dennis; durata 109’, nelle sale dal 15 gennaio 2015, distribuito da 01 Distribution.
“Everybody's got a hungry heart/Lay down your money and you play your part/Everybody's got a hungry heart”. Bruce Springsteen cantava cosi, nel 1980, con il suo splendido singolo Hungry Heart. La sua era l’ennesima ballata d’amore per il suo New Jersey, lì dove l’America mostra il suo cuore affamato, la sua anima proletaria.
Saverio Costanzo, regista anomalo nel panorama italiano con chiare ascendenze/ambizioni internazionali, decide di “rubare” il titolo di Springsteen e lo usa per il suo personale adattamento a stelle e strisce del romanzo “Il bambino indaco” di Marco Franzoso.
Con un budget residuo e il coinvolgimento eroico di due attori di richiamo come Alba Rohrwacher e Adam Driver (stella nascente di Hollywood), Costanzo si muove tra i corridoi claustrofobici degli appartamenti newyorkesi per raccontare una particolare storia d’amore e d’angoscia.
Driver e Rohrwacher sono, infatti, una coppia sui generis, nata da un colpo di fulmine nella più assurda e comica delle situazioni, che vedrà la propria esistenza messa alla prova dalle idiosincrasie di Lei, italiana in terra straniera, e dalle rigidità mentali di Lui. L’arrivo di un figlio “speciale” distruggerà i loro equilibri e li deflagrerà in tragedia.
Accolto con successo all’ultimo Festival di Venezia, dove strappò entrambi i premi per le migliori interpretazioni e sfiorò di un soffio il Leone d’oro, Hungry Hearts è una pellicola che sceglie di muoversi in tante direzioni, toccando troppi argomenti, per poi parlare (volutamente?) di qualcosa di molto più semplice e normale.
Il gusto e l’intelligenza di Costanzo, il suo talento nell’esasperare le inquadrature, nel trovare il pathos e il thriller in situazioni quotidiane di convivenza famigliare, può ricordare facilmente atmosfere hitchcockiane e smaccati sguardi a Polanski (Rosemary’s Baby, anche per il tema della maternità, è stato tirato in ballo diverse volte) ma l’obiettivo dell’autore è sensibilmente altro.
La disperata love story di Mina e Jude, dalla passione degli esordi e dal loro matrimonio da favola sulle note di Modugno (la scena con Tu si na cosa grande cantata da Driver è un momento di splendido cinema), alla lenta agonia emotiva della Rohrwacher (mai davvero convincente come in questa occasione), decisa a mantenere puro il suo piccolo bambino indaco fino all’autodistruzione, più che all’horror famigliare guarda piuttosto al dramma borghese degenerato.
Costanzo, infatti, si sposta in America per trasformare un geeere asfittico prettamente italiano, cercando di stressarlo, in tutti i modi possibili, dai grandangoli opprimenti alla continua tensione emotiva.
Giocare continuamente sul destino di questo bambino “speciale” e seviziare con affetto ogni legame tra i due protagonisti sono il modo speciale del regista di prendere un plot estremamente scontato, come una tragedia casalinga, per dimostrare le proprie distanze dall’idea banale di Cinema nostrano.
Persino quel finale sbagliato, pieno di retorica, è l’ennesima conferma di un autore che ha messo in chiaro le proprie scelte.