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Sabato, 18 Mag 2024

Guerra o DirittoGuerra o Diritto? di Renato Federici, Roma Libreria Le Storie.

Recensione di Gabriele Pepe

L’arte della guerra e l’arte giuridica appartengono allo strumentario da lavoro delle caste e dei popoli dominanti. La superiore capacità giuridica e l’abilità bellica, del resto, i cromosomi delle categorie privilegiate.

Le classi e i popoli dominanti hanno, per l’appunto, a disposizione strumenti in grado di imporre le proprie scelte sociali, politiche ed economiche sia all’interno sia all’esterno della comunità di appartenenza. Le caste dominanti avrebbero costituito due officine una per la produzione di mezzi giuridici e un’altra per forgiare quelli bellici; uno per usi pacifici e l’altro per usi violenti; uno per gli utilizzi quotidiani e l’altro per quelli eccezionali.

Quindi guerra e diritto sarebbero, per Federici, i due mezzi operativi delle classi dominanti, tra loro alternativi, come il giorno e la notte.

Si tratta di una tesi del tutto nuova; entrambi i meccanismi rappresentano la continuazione della politica. Il diritto è la continuazione della politica con i mezzi appropriati, mentre la guerra, secondo il noto insegnamento di von Clausewitz, è la prosecuzione della politica con altri mezzi. Se si cerca un antesignano di Federici questo è von Clausewitz e un altro è Santi Romano, e prima di loro Cicerone, Sofocle, Platone, Hobbes, Rousseau, Kant e Marx. Nessuno di questi studiosi, però, era stato così esplicito.

Per Federici, la funzione del diritto è quella di prevenire e risolvere le controversie: prevenire con il diritto sostanziale e risolvere con il diritto processuale. Quando il diritto fallisce come criterio di prevenzione e risoluzione delle dispute subentra un criterio alternativo rappresentato dal ricorso al conflitto armato tra parti avverse. Entrambi gli Stati nemici, entrambe le fazioni avversarie pretendono di avere ragione e non accettano giudizi di terzi o accordi. Gli uni messi di fronte all’opposizione degli altri, pretendono di imporre la propria volontà con la forza delle armi. Allora è guerra, ribellione, rivoluzione ma non diritto!

La tesi della alternatività tra guerra e diritto trova sulla sua strada l’ostacolo rappresentato dal diritto bellico. Un concetto tradizionalmente dato per pacifico e che ora viene messo in discussione da Federici attraverso la demolizione dei tre pilastri sui quali esso si fonda: lo jus ad bellum, lo jus in bello e lo jus post bellum.

Lo jus ad bellum affonda le sue radici nei riti della storia di Roma; riti sacrali successivamente recuperati durante le guerre di religione tra il secolo XVI e XVII da alcuni autori come Alberico Gentili e Ugo Grozio, per distinguere gli atti di guerra dai comportamenti dei briganti e dei pirati.

Anche se le cerimonie in uso presso gli antichi Romani per ingraziarsi il favore degli dei erano ben più rigorose, si pensava che attraverso alcune procedure si potesse trasformare la guerra da strumento feroce in mezzo legittimo per ottenere ragione. Qui sorse un equivoco: il concetto di guerra giusta o comunque rispettosa di procedure legali e/o sacrali. Su questo equivoco di fondo ed anche sulla base di una commistione tra i due concetti, l’idea che esistesse un diritto bellico venne accolta dagli studiosi a partire dal Medioevo.

Gli istituti su cui si fonderebbe lo jus ad bellum sono l’ultimatum e la dichiarazione di guerra. Colui che decideva di aggredire un altro Stato o un altro popolo doveva far precedere la dichiarazione di guerra dalla richiesta di riparazioni per l’affronto lamentato; solo dopo il rifiuto del risarcimento, si poteva dichiarare guerra e combattere. Tale postulato è crollato con la nascita delle Nazioni Unite, nel 1945, le quali nel proprio atto costitutivo vietarono la guerra di aggressione e la considerarono come un delitto nei confronti della Comunità Internazionale. Il ragionamento era semplice: se non vi sono gli aggressori, non si fanno più guerre. Ciononostante dal 1945 ad oggi molteplici sono le guerre scoppiate, con la differenza rispetto alle precedenti di non essere state dichiarate né precedute da ultimatum. Tutti i contendenti hanno accusato, infatti, i nemici di aggressione e per questo si sono dichiarati aggrediti e costretti a difendersi di fronte all’altrui operato illecito.

Il secondo pilastro è, invece, costituito dallo jus in bello che raggruppa l’insieme delle regole da rispettare durante i conflitti armati. Alcune di queste norme sono in uso da tempo, come quelle sulla separazione tra civili e combattenti. Altre sono state codificate nei Trattati internazionali dopo la seconda metà del secolo XIX, quando incominciarono a farsi largo nuovi istituti che avrebbero surclassato i precedenti.

A questi nuovi istituti è stato attribuito il nome di diritto umanitario in tempo di guerra di cui rappresentò fulgida espressione la Croce Rossa Internazionale, una associazione umanitaria deputata al soccorso dei feriti e dei prigionieri. Federici si interroga a questo punto se le regole da rispettare durante i conflitti armati abbiano carattere bellico o umanitario. La riposta fornita è la seguente: il diritto bellico disciplina i conflitti armati nella loro interezza, non altrettanto pretende di fare il diritto umanitario. Scopo del diritto umanitario è quello di salvare più vite possibili, alleviare le sofferenze e le distruzioni, insomma evitare il conflitto armato e non già disciplinare lo scontro secondo regole simili ad un torneo o duello. Dunque le poche regole che riescono a sopravvivere sono solo quelle a carattere umanitario (non uccidere i prigionieri e non ridurli in schiavitù, soccorrere i feriti, separare i civili dai combattenti, non utilizzare armi proibite). E questo non è il diritto bellico, ma il diritto umanitario.

Il terzo pilastro si rinviene, da ultimo, nello jus post bellum. È convincimento diffuso che la guerra crei il diritto che si stabilirà al termine del conflitto. Per Federici, così facendo, si cade in errore in quanto, a ben vedere, il diritto non può mai essere frutto del non diritto. La guerra inizia quando le parti in conflitto non vogliono intavolare rapporti giuridici o perché essi sono falliti. Ciò vuol dire anche che la guerra finisce quando l’esito dei combattimenti ha convinto entrambe le parti a ritornare ai metodi giuridici. In un primo caso perché la sconfitta è totale e così anche la vittoria dell’altro; in questa evenienza il vincitore impone le proprie regole e lo sconfitto è costretto ad accettarle. In un secondo caso quando non ci sono veri vincitori e veri sconfitti, le parti cessano di farsi la guerra e cercano una soluzione attraverso trattative. Il Trattato di pace e la procedura che lo precede pongono fine al conflitto armato.

Le argomentazioni esposte dimostrano come Federici sia riuscito a demolire i tre pilastri del diritto bellico, confermando definitivamente la validità della propria tesi sulla alternatività tra guerra e diritto.

In definitiva, il volume Guerra o diritto? si fa apprezzare per la chiarezza espositiva, il rigore metodologico e l’approccio interdisciplinare. In particolare, l’analisi ricostruttiva compiuta da Federici si rivela di palpitante attualità e centralità nell’odierno scenario mondiale caratterizzato dal terrorismo internazionale e dalla rinascita di nuovi fondamentalismi religiosi.

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