Respinto in primo grato e accolto in appello, il ricorso degli eredi (moglie e figlie) di un lavoratore dipendente suicidatosi a causa di una condotta attuata da un rappresentante del datore di lavoro, qualificabile come mobbing, ha avuto disco verde anche da parte della Cassazione che, con sentenza n. 14274/2015, ha rigettato il ricorso della controparte.
Per i giudici della Suprema Corte, infatti, la Corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto dalla controparte, ha ben argomentato la propria decisione, laddove ha affermato che appare altamente probabile che lo stress indotto dal mobbing, riferito dai testimoni e ben descritto nella consulenza tecnica d'ufficio, insistendo su una personalità indubbiamente fragile, abbia potuto condurre il dipendente alla decisione di togliersi la vita.
In sostanza, il fattore lavorativo, pur non essendo l'unico, appare come una concausa efficiente dell'atto suicida, insieme, appunto, con i fattori psichici costituzionali.