Con sentenza n. 22635/2015, la Cassazione – Sezione Lavoro – torna ad occuparsi di mobbing, indicando gli elementi necessari perché una messa in atto nei confronti del lavoratore possa essere considerata mobbizzante.
Per i giudici della Suprema Corte, il mobbing è una figura complessa che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale e recepito dalla giurisprudenza di legittimità, designa un fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.