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Domenica, 12 Mag 2024

Il 27 aprile scorso Il Foglietto si è occupato di una sentenza della Corte di Cassazione – Sezione lavoro (n. 5574 del 22 marzo 2016), che aveva confermato il licenziamento di un lavoratore dipendente che, durante la fruizione dei permessi di cui alla L. 5 febbraio 1992, n. 104, era stato visto recarsi presso l'abitazione del parente da assistere soltanto per complessive quattro ore e tredici minuti, pari al 17,5% del tempo totale concesso.

Tale condotta – ad avviso dei Giudici della Suprema Corte - era da ritenersi sufficiente per giustificare il licenziamento del lavoratore, essendo indice di un sostanziale e reiterato disinteresse al rispetto delle esigenze aziendali e dei principi generali di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, senza che potesse rilevare, in senso contrario, la sussistenza di un marginale assolvimento dell'obbligo assistenziale.

A distanza di due settimane, sempre la Cassazione, con sentenza n. 9217 del 6 maggio 2016, ha confermato la legittimità del licenziamento di un altro lavoratore dipendente che, usufruendo sempre dei permessi previsti dalla legge 104, prestava una parziale assistenza al parente disabile perché impegnato a svolgere altre attività.

Lo scorretto utilizzo dei predetti permessi era stato accertato dall'azienda per il tramite di un’agenzia investigativa. Al riguardo, la Suprema Corte con una precedente decisione (n. 25162/2014) aveva ritenuto legittimi gli accertamenti demandati dal datore di lavoro all’investigatore privato, in quanto avevano ad oggetto “comportamenti extralavorativi, che assumevano rilievo sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro”.

Il comportamento del dipendente che, in relazione al permesso ex articolo 33 della legge 104/92, si avvalga dello stesso non per l’assistenza al familiare, bensì per effettuare altre attività, per i Giudici «integra l’ipotesi dell’abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità e uno sviamento dell’intervento assistenziale».

Il lavoratore in questione - sottolinea la Cassazione - ha prestato assistenza «per due terzi del tempo dovuto o in base agli stessi riferimenti del ricorrente per metà del tempo dovuto con grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo, norme codicistiche che non risultano rispettate dal ricorrente, anche a non voler seguire necessariamente la figura dell’abuso di diritto che comunque è stata integrata tra i principi della Carta dei diritti dell’unione europea (art. 54), dimostrandosi così il suo crescente rilievo nella giurisprudenza europea».

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