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Mercoledì, 16 Ott 2024

Giustizia, roba da ricchi di Elisa Pazé, Editori Laterza, Bari-Roma, 2017, pp. 144, euro 14.

Recensione di Roberto Tomei

Che la giustizia italica non funzioni alla perfezione è un fatto di dominio pubblico, così come assai diffusa è la percezione che la legge non sia proprio uguale per tutti, come si legge nelle aule dei tribunali. Ma un conto è la percezione, altro è la dimostrazione che le cose stanno effettivamente così come sono avvertite dai cittadini.

A dare questa dimostrazione, ci pensa ora l’agile quanto documentato studio di Elisa Pazè, magistrato a Torino, che qui si segnala all’attenzione dei lettori, in cui si chiarisce come corruttori e bancarottieri raramente finiscano nelle patrie galere, di solito piene, invece, di ladruncoli e piccoli spacciatori. A conferma che a essere perseguiti sono i reati “di strada”, come furti, scippi e rapine, insieme, peraltro, ad altre tipiche condotte dei poveri, come il furto di rifiuti e il trasporto non autorizzato di rottami ferrosi, nonché specifiche attività come quelle di lavavetri, parcheggiatori abusivi e venditori ambulanti.

Molto bella, nel libro, la relazione-comparazione instaurata fra l’antica spigolatura e l’attuale raccolta di rifiuti, dove si sostiene che anche per i rifiuti si potrebbe inventare una sorta di “moderna” spigolatura, consentendo ai bisognosi di recuperarne una parte, proprio come un tempo, nelle società agricole, dopo la mietitura del grano, si permetteva alle donne, ai ragazzi e ai meno abbienti la raccolta delle spighe che residuavano, un recupero che non arrecava alcun danno ai coltivatori, ai quali, anzi, sarebbe costato un dispendio di energie maggiore dell’utile che ne avrebbero ricavato. A metà del XIX secolo, la spigolatura era ancora un’attività diffusa (come ci ricorda La spigolatrice di Sapri, composta da Luigi Mercantini nel 1857), che non aveva per oggetto solo il grano, dato che ci si poteva impossessare anche di riso, frutta, olive e castagne.

L’accanimento, se così si può dire, nei confronti dei poveri (Manzoni diceva che i poveri ci vuol poco a farli comparire birboni) tanto più appare inaccettabile se lo si confronta con gli illeciti dei potenti (violazioni bancarie, societarie e tributarie), che vengono, invece, sistematicamente trattati con indulgenza, ancorché procurino, com’è noto, sconquassi ben più rilevanti. Inoltre, stupisce, in particolare, la scarsa tutela apprestata dall’ordinamento per la difesa dei beni comuni (aria, acqua, suolo), dato che le violazioni in materia sono per lo più punite con semplici contravvenzioni.

Per invertire la rotta, nelle conclusioni, Pazé propone: l’avvento di un diritto penale minimo, dato che nessun sistema può funzionare se i reati sono troppi, avvertendo di non farsi illusioni solo “limitandosi a spostare illeciti dal settore penale ad altri settori dell’ordinamento”; una configurazione più chiara dei reati stessi, da raggruppare possibilmente in un unico testo, facilitandone così la conoscenza da parte dei cittadini; un ripensamento della scala dei valori a cui è improntato il sistema penale, ponendo al centro la tutela della persona e, nell’ambito della proprietà, valorizzando i beni collettivi rispetto a quelli individuali; una drastica ristrutturazione della distinzione fra delitti e contravvenzioni; una ridefinizione della natura stessa delle sanzioni, rendendo più incisive le misure alternative per chi si rende colpevole di reati meno gravi; infine, l’approntamento di misure atte a rimuovere le cause della povertà, perché il diritto penale non può essere il succedaneo di interventi di carattere sociale.

Per il legislatore, dunque, molti i motivi e gli spunti di riflessione.

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