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Sabato, 20 Apr 2024

Dall’inizio dell’estate 2017, in Europa sono bruciate aree estesissime: in Francia (Costa Azzurra), in Portogallo, Spagna, Croazia e Montenegro. E ovunque l’emergenza ha stentato a rientrare per settimane. In Russia oltre 1.6 milioni di ettari sono andati in fiamme e persino in Groenlandia, grandi superfici della tundra hanno bruciato per settimane a soli 50 km dalla calotta glaciale della stessa regione! In Canada 40mila persone hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni a causa delle fiamme. Negli USA, incendi mai visti prima, per estensione e durata, si sono verificati in California nell’ottobre 2017.

Stessa situazione in Indonesia, sud America, Africa. La stagione degli incendi nelle foreste boreali è ogni anno sempre più lunga. In tutti i casi, il cambiamento climatico ha enfatizzato il problema con aridità, alte temperature, bassa umidità e ricorrente forte vento. Gli incendi boschivi, oramai ricorrenti, vanno pertanto considerati nel novero delle conseguenze globali del caos climatico in cui è entrato l’intero pianeta Terra per l’elevata concentrazione di gas serra di origine antropica.

Gli incendi italiani hanno riguardato gran parte della penisola: dalla Riserva Naturale del Fosso dello Zingaro in Sicilia alla Calabria, Campania (Vesuvio e Campi Flegrei), Lazio (Monte Giano nel reatino), Toscana, Veneto, Liguria, fino alla Val di Susa in Piemonte. L’area a clima mediterraneo, con la sua vegetazione, è la più esposta a questo tipo di evento.

Un caso speciale: l’Abruzzo

Nel 2017, vi sono stati oltre 216 incendi di vaste proporzioni. La Regione Abruzzo ha circa il 40% del suo territorio protetto da Parchi e Riserve Naturali e un patrimonio forestale stimato in 438.590 ettari, pari al 40,6% dell’intera superficie regionale . Gli incendi significativi hanno interessato oltre 3.500 ettari di superfici boschive a cui vanno aggiunti 2.500 ettari di superfici non coperte da boschi (es. praterie con arbusti) o scarsamente boscate. Nel decennio 2007-2017 sono andati in fumo 15.000 ettari di territorio, pari al 3,5% dei boschi dell’intera “Regione Verde d’Europa”. Di questo patrimonio, l’80% è di proprietà collettiva (Comuni, Amministrazioni Separate degli Usi Civici) e un terzo delle superfici incendiate comprende aree di elevato pregio naturalistico, storico-archeologico-paesaggistico-ambientale ed Aree Naturali Protette: Parco Nazionale del Gran Sasso d’Italia-Monti della Laga, Parco Nazionale della Majella-Morrone, Parco Regionale del Sirente-Velino, (in Valle Subequana, tra Secinaro e Goriano Valli).

Quello che però ha provocato più profonda emozione è stato l’incendio del Monte Morrone, del massiccio della Majella e non solo per la situazione di pericolo per centri abitati ricchi di storia (Sulmona, Prezza, Roccacasale, Pacentro…) ma anche perché ha colpito, per quasi un mese, una montagna del Parco Nazionale storicamente importante nella storia del nostro Paese oltre che dell’Abruzzo; parliamo dei luoghi del giuramento, presso l’imponente tempio di Ercole Curino, agli inizi del I secolo a.C. delle popolazioni che costituirono la Lega Italica, quando concepirono il nome stesso di Italia impressa su una moneta con capitale nella vicina Corfinio; luogo della villa di Ovidio e poi del monastero eremitico di Sant’Onofrio al Morrone, ove risiedette san Celestino V, il papa “del gran rifiuto” e dell’Abbazia del Santo Spirito al Morrone che ha rappresentato per secoli il più importante e celebre insediamento della Congregazione dei Celestini nonché il fulcro della vita culturale, religiosa e civile di un vasto territorio.

Il Morrone, con il massiccio della Majella, sono montagne sacre da sempre, con paesaggi, eremi e luoghi hanno ispirato ieraticità, leggende, usi, tradizioni identitarie. La sacralità è testimoniata persino dalla “bestemmia” più comune in Abruzzo: “mannaggia alla Majella”.

Le cause degli incendi

Gli incendi spontanei dovuti alla cosiddetta autocombustione dei boschi praticamente non esistono e quelli innescati dai fulmini sono rari e quasi sempre hanno effetti moderati perchè associati alle piogge.

I roghi dipendono quando non causati da irresponsabilità o distrazione, oppure dall’opera di un “piromane” (che va considerato a tutti gli effetti una persona affetta da rara malattia mentale) sono quasi tutti dolosi, azioni criminali, ossia appiccati per trarne utilità. Di regola, quindi, è corretto parlare di “incendiari” piuttosto che di “piromani".

L’incendio doloso si lega quasi sempre a interessi speculativi oppure, in alcune regioni, per creare il fabbisogno di assunzioni di operai forestali precari. Secondo “l’Avvenire”, per quanto riguarda il sud della penisola, vi sarebbe l’interesse dell’industria, sempre più diffusa, della produzione di energia elettrica da biomasse, interessata all’acquisizione dell’imponente quantitativo di legname semicombusto, per alimentare i propri impianti di grandi dimensioni.

Infine, va sottolineata la “professionalità” criminale con cui sono stati innescati gli incendi: focolai multipli in luoghi inaccessibili, fatti partire quando tirava vento e nelle ore serali dei giorni pre-festivi, sapendo che di notte i mezzi aerei non possono operare. Non può essere escluso anche un disegno della malavita organizzata a livello nazionale, del tipo di quanto si verificò con gli attentati e le stragi, nel 1993, all’Accademia dei Georgofili a Firenze, a Milano e a Roma contro le chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio Velabro.

I danni degli incendi dei boschi

Quando viene distrutto il bosco, con la sua varietà di microambienti e di microhabitat, scompare la base stessa dell’ecosistema dal momento che tutte le catene e reti alimentari hanno inizio direttamente o indirettamente dall’attività fotosintetica.

Scompaiono i luoghi di permanenza, di rifugio o di sosta della fauna: l’intera “rete” della natura è localmente annientata. Gli organismi dotati di alta mobilità (è il caso dei lupi , degli ungulati, delle volpi..) possono trovare scampo attraverso la fuga, anche se molti individui hanno mostrato di essere ignari del rischio e non si sono allontanati per tempo così che, circondati dalla fiamme, hanno fatto una fine terribile. Tutti gli organismi con scarsa mobilità vengono sterminati.

In periodo riproduttivo periscono le uova degli uccelli, i nidiacei e almeno 5 volatili adulti per ettaro. La pubblicistica scientifica parla mediamente di centinaia di mammiferi (soprattutto micro-mammiferi) e di rettili per ettaro e di 5 milioni di insetti e cifre analoghe per altri invertebrati. Il danno incommensurabile alla biodiversità si registra soprattutto a carico degli endemismi che rischiano l’estinzione. Si consideri che flora e fauna hanno vissuto processi co-evolutivi: senza animali anche la flora è impedita a propagarsi secondo i normali processi e ritmi ecologici: i mammiferi disseminano (e fertilizzano con le feci) semi da bacche, drupe ecc. e gli insetti operano l’impollinazione favorendo la riproduzione sessuata dei vegetali, le formiche respingono i predatori del novellame degli alberi … e qui sarebbe troppo lungo approfondire l’argomento.

La scomparsa degli arbusti di Ramnus e dei meli selvatici in certe zone abruzzesi e laziali ha costretto gli orsi ad andare via. La migrazione forzata degli animali superstiti, inoltre, è anch’essa problematica perché va ad affollare aree abitate da altri animali territoriali che tra l’altro occupano la stessa nicchia ecologica, risultandone un eccesso di competizione (come sta avvenendo, e assai immotivatamente, persino tra noi umani col fenomeno dei migranti!).

L’incendio espone, altresì, a gravissime situazioni di rischio geologico-idrico. La scomparsa della vegetazione arborea, arbustiva ed erbacea aumenta la forza erosiva delle piogge (che peraltro si manifestano già troppo spesso con maggiori intensità) e si ha sovente il dilavamento della componente superficiale del suolo e perdita di fertilità. In ambiente mediterraneo questo fenomeno è gravissimo perché la ricostituzione è assai più lenta che altrove e talvolta spontaneamente impossibile.

Si producono, per giunta, fenomeni di “debris flow”, flussi di detriti, fenomeni geologici in cui le masse di suolo e di roccia frammentata, cariche di acqua, scorrono verso valle attraverso canali di flusso, trascinano anche tronchi semicombusti e formano depositi fittizi fangosi sui piani della valle. Ciò si è verificato nel corrente 2017 nel reatino, nel Monte Giano (Antrodoco) percorso da un incendio: dopo la pioggia i detriti hanno invaso la Strada Statale, la sede ferroviaria, occluso ponti, sepolto alcune stalle e alcuni campi coltivati.

Inoltre, le acque meteoriche, non più frenate e ritenute dal bosco con la sua lettiera, corrono velocemente verso il basso diminuendo i tempi di corrivazione alimentando piene di maggiori entità. Dopo un incendio, infatti, si forma superficialmente uno strato di cenere e suolo alterato, idrofobico che impedisce l’assorbimento dell’acqua nelle porosità e nelle fessure della roccia. La “fuga” rapida dell’acqua verso valle e il non assorbimento della stessa nel suolo, può comportare la perdita di sorgentelle, di fontanili destinati all’abbeveraggio degli animali da pascolo e il prosciugamento di laghetti indispensabili all’autoecologia degli anfibi.

Ê importantissimo pianificare la gestione delle aree post-incendio, per evitare danni ulteriori e spesso irreversibili perché la perdita di suolo per dilavamento impedisce la ripresa naturale del bosco, per sempre. Questo si fa realizzando, con tecniche di ingegneria naturalistica, palizzate, fascinate e barriere anti-erosione, ove necessario, studiando la situazione caso per caso. Allo scopo si utilizza il materiale semibruciato presente in loco: tronchi e ramaglie.

C’è da sottolineare, infine, l’immissione di imponenti quantitativi di anidride carbonica, di cui l’atmosfera terrestre attualmente non ha certo bisogno.

Che fare perché quanto avvenuto nel 2017 non si verifichi mai più

In Abruzzo, gli incendi hanno colpito più che altrove. I Comuni e le Amministrazioni Separate degli Usi Civici sono inadempienti nella redazione del Piano di Gestione Silvo-Pastorale, una sorta di Piano regolatore dei boschi, primo elemento di prevenzione degli incendi, che ne prevede l’utilizzo sostenibile, la manutenzione e la sicurezza attraverso, ad esempio, la realizzazione di fasce tagliafuoco. Un solo comune dei 308 ha concluso l’iter e si è dotato del Piano con relativi interventi operativi.

Le norme che disciplinano la Protezione Civile, inoltre, affidano ai sindaci responsabilità sugli incendi, ma la loro impreparazione è la cosa più evidente e clamorosa a cui abbiamo assistito nel corso dell’emergenza. Ma la sostanza dell’accaduto sta nel fatto che la Regione Abruzzo ha delegato storicamente, a titolo oneroso, al Corpo Forestale dello Stato la quasi totalità delle sue funzioni regionali in materia. Oggi, con il CFS che non c’è più perché assorbito dall’Arma dei Carabinieri, si è trovata scoperta su tutto e non ha pianificato nulla per fronteggiare la crisi che pure era prevedibilissima. Si pensi che sono venuti a mancare, nel corso degli incendi, i 215 forestali Direttori delle Operazioni di Spegnimento (DOS: quest’anno ve ne erano solo 10, dei vigili del fuoco che non conoscono il territorio, che non hanno mezzi idonei né esperienza in materia di boschi e non presidiano il territorio perché risiedono nei capoluoghi). Sono mancate le oltre mille persone qualificate, addestrate, equipaggiate, nello spegnimento a terra, storicamente attive! (erano 1.198 Unità di quando c’erano i forestali…oggi 181 di cui 150 volontari).

Oggi, la Regione Abruzzo ha necessità di assumere forestali al suo interno, per animare un Servizio mantenuto finora ai minimi termini e con soli compiti di programmazione. Deve riunificare le competenze in materia forestale, che oggi sono frammentate in tre o quattro assessorati; deve aggiornare il Piano rischi da incendi boschivi (A.I.B.) fermo al 2015, quando c’era il CFS. Insomma, la Regione sarebbe chiamata a fare una rivoluzione, tanto oggi è inadeguata.

In ottobre, 20 associazioni di protezione ambientale operanti in Abruzzo, unitamente a 5 istituzioni scientifiche (Univ. della Tuscia, Soc. Italiana Scienze della Montagna, Società Italiana Restauro Forestale, Centro Italiano Studi e Documentazione degli Abeti Mediterranei, Sabina Universitas), hanno promosso il convegno, assai partecipato, “Fiamme sull’Appennino: Mai Più Incendi” dalle cui risultanze è nato un gruppo di studio e approfondimento da me coordinato, che alla fine ha redatto un documento di sei pagine, una “CARTA” che contiene in dettaglio quanto occorre fare con urgenza, a tutti i livelli, perché quanto accaduto nel 2017 non si verifichi mai più.

Questa “CARTA” è, di fatto, una piattaforma di confronto e di lotta, già presentata e illustrata al governo regionale, peraltro senza obiezioni. Sono stati presi impegni … ma staremo a vedere.

Tra le cose qualificanti, si richiede la creazione di un Comitato Tecnico-Scientifico, con comprovate ed effettive competenze, che esprima pareri obbligatori ancorché non vincolanti su ogni questione in materia di foreste. E che dall’Abruzzo debba partire la richiesta al Ministro della Giustizia (magari col supporto della Conferenza Stato-Regioni), di istituire in Italia una Procura Speciale Anti-Incendi.

Parliamoci chiaro: gli incendi si possono e si devono prevenire; e se, nonostante le misure di prevenzione, si sviluppassero, occorre … rimettere i piedi per terra e intervenire con tempestività, con squadre qualificate, ben attrezzate e addestrate. Mi preme sottolineare, come l’esperienza ha dimostrato, che i mezzi aerei, che peraltro non possono operare di notte, e su cui si è fatto in Italia troppo affidamento, sono di ausilio e non sostitutivi degli interventi a terra!

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Già direttore dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente

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