Nell’affrontare di petto il tema, un recente pamphlet di Gianfranco Viesti (La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria, uscito per i tipi di Laterza), oltre a fare il punto sulla grave situazione in cui versa l’università italiana, propone possibili vie d’uscita, senz’altro l’aspetto di maggior interesse del libro, dato che è assai difficile trovare chi ne tratti con la stessa competenza. Ma di ciò parleremo la prossima settimana, limitandoci qui a illustrare solo la diagnosi fatta dal docente dell’ateneo pugliese.
Innanzitutto, l’autore parte dal contesto in cui ci siamo mossi a partire dalla crisi del 2008, che è stata foriera di “riforme” rivelatesi di segno tutt’altro che positivo: “Quanto e dove tagliare, quanto velocemente cambiare sono divenuti il principale ambito di competizione nelle proposte dei movimenti politici”. Ciò ha equivalso, purtroppo in un clima politico-culturale unitario, a far credere, magari utilizzando capriole verbali come la formula dell’”austerità espansiva”, che il paese si sarebbe potuto salvare solo riducendo il settore pubblico, da combattere a priori.
La compressione/distorsione del sistema universitario pubblico, infatti, iniziata con la riforma Gelmini nel 2010, non è mai finita, stante che da Berlusconi a Monti, a Letta e fino a Renzi, l’azione degli esecutivi è stata improntata ai medesimi principi, avendo essi condiviso un pensiero unico che ha attraversato tutto il decennio.
Di fatto, una piccola élite – costituita da ministri provenienti dalle fila dell’università, alti dirigenti del Ministero, consulenti della Presidenza del Consiglio e docenti chiamati a guidare l’Anvur - arrogandosi ogni potere, si è sostituita alle rappresentanze parlamentari e ha preso decisioni orientate alle sue convinzioni politico-ideologiche, opportunamente mascherate e spacciate come scelte tecniche.
Le parole d’ordine alle quali queste scelte si sono ispirate risuonano ancora nelle nostre orecchie: risparmio, merito, indicatori oggettivi, tutela degli interessi dei territori più forti. L’esito è noto: il sistema è stato inondato da un insieme di regole e prescrizioni sempre più minuziose, dettate dal Miur, ma soprattutto dall’Anvur, cui spetta ormai un ruolo molto importante nella politica della ricerca nel nostro paese.
Sta di fatto che i problemi di quantità e di qualità dell’università non solo non sono stati risolti, ma si sono addirittura aggravati. Tagliato il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), in termini reali di oltre il 20%, ne sono conseguite la riduzione del numero dei docenti (quasi 15.000 unità) e la chiusura delle porte dell’università a tutta una leva di giovani ricercatori.
La politica per il diritto allo studio (borse di studio, alloggi, servizi) è rimasta modesta e anche le immatricolazioni, già inferiori a quelle degli altri paesi europei, sono diminuite (circa un quinto rispetto ai livelli massimi del passato). E meno studenti significa, naturalmente, meno laureati.
Infine, il sistema è stato squassato, da una parte, a causa della riduzione degli insegnamenti di area umanistica, dall’altra, in conseguenza della suddivisione fra atenei di serie A e di serie B, con un disinvestimento soprattutto nel Mezzogiorno, già afflitto da livelli di istruzione più bassi.
Dispiace che, salvo lo sciopero dell’estate del 2017, a questi processi non ci sia stata reazione, nemmeno dai settori che ne sono stati marginalizzati. Ma tant’è.
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